Home Argomenti Politica Ma è possibile parlare seriamente di “Macroregione”? Si

Ma è possibile parlare seriamente di “Macroregione”? Si

Condividi

E’ sempre stato uno dei temi cui abbiamo dedicato attenzione. Per l’importanza strategica futura, per un interesse personale che risale agli anni ’70 del secolo scorso ed all’esperienza del Consorzio Polifunzionale Intercomunale dei Comuni del Trasimeno, e che vive tuttora, per la cruciali del tema rispetto all’area geografica di cui si occupa il nostro giornale. Parliamo della ipotesi “Macroregione”, che negli ultimi mesi ha visto i presidenti di Toscana, Marche e Umbria attivarsi per avviare un percorso di integrazione fra le tre realtà regionali istituzionali. La vittoria del No nel referendum costituzionale del 4 dicembre potrebbe essere una battuta d’arresto per ogni riforma della pubblica amministrazione e dello stato, ma noi speriamo che non sia così. Per questo abbiamo intenzione di pubblicare alcuni degli articolo comparsi sulla Rivista “Passaggi” edita da Morlacchi Editore e diretta da Paolo Burattini, che ha dedicato al tema il suo ultimo numero.

Iniziamo con questo di Sergio Sacchi perché costituisce una utile guida all’inquadramento del tema dal punto di vista storico e degli aspetti dimensionali.

(g.f)

Da “PASSAGGI” di Sergio Sacchi

Macroregione: ricomincio da tre?

 

*Sergio Sacchi, Docente di macroeconomia presso l’Università degli Studi di Perugia.

Macroregione, per dire: una Regione più grande, che sia estesa più di ciascuna di quelle che ne costituiscono la base di partenza. Grande, nel caso che qui interessa, quanto le Marche, la Toscana e l’Umbria messe insieme. Costruita per aggregazione di altre regioni o per ricombinazione di unità più piccole quali le Province o i Sistemi locali del lavoro. Insomma, per consolidamento, verrebbe da dire, di alcuni centri di costo al fine di ottenere guadagni ovvero risparmi di spesa come conseguenza della eliminazione di doppioni di enti e dei loro cloni.

Tuttavia il criterio di riconoscimento della dimensione appropriata potrebbe anche essere diverso: quello dell’omogeneità delle vocazioni produttive, ad esempio, come nel caso delle regioni agrarie. Oppure quello della funzionalità strategica: paludi da prosciugare, barriere difensive da apprestare, eccetera. Talmente assillante è oggi l’appello alle finalità sostanzialmente finanziarie da perdere di vista l’assenza di qualsiasi tipo di riferimenti alla possibilità di affiancare alla legittima istanza della sostenibilità dei bilanci locali una logica geografico-naturale e persino quella geografico-statistica, quale fu ripresa e alla fine accolta nei dibattiti in sede di Assemblea Costituente. Vale per quasi tutti coloro che si sono avvicinati al problema del riordino istituzionale il ricordo del fatto che le “regioni” entrarono nella cultura amministrativa italiana come termine alternativo, prima, e poi del tutto sinonimo e sostitutivo, dei fino ad allora in vigore “compartimenti statistici”

Come ha scritto un eminente geografo italiano, Lucio Gambi, con la Costituzione del 1948 le regioni non sono state disegnate ex novo in base ad una analisi delle reali situazioni del dopoguerra. Sono state chiamate «regioni» delle ripartizioni territoriali di valore non giuridico, che già esistevano dal 1864 col nome di «compartimenti»: erano destinate cioè ad inquadrare territorialmente le elaborazioni e i risultati delle inchieste e delle rilevazioni statistiche nazionali. Ma neanche questi «compartimenti» potevano fregiarsi di una nascita ex novo, perché in realtà erano stati per lo più costituiti con raggruppamento di un certo numero di province fra loro finitime, che prima dell’unificazione nazionale avevano fatto parte del medesimo Stato, e in quest’ultimo avevano ricoperto insieme uno spazio che nei secoli della romanità imperiale o in epoca comunale aveva ricevuto un nome regionale.

I «compartimenti» del 1864 risultano quindi da uno sforzo di identificazione di quelle vecchissime regioni, la cui fama era stata ribadita e divulgata nel rinascimento da una rigogliosa tradizione di studi. Però è irrefutabile che le identificazioni regionali da cui erano nati i «compartimenti» statistici del 1864, in molte zone della penisola non avevano più alcuna presa nel 1948 quando la nuova costituzione entrò in funzione. E da quest’ultima data ad oggi il valore di quella ripartizione si è rivelato via via anche più insoddisfacente e vulnerabile. Alla base dell’intera faccenda c’è, dunque, un vero e proprio peccato d’origine. Comunque l’identikit della Macroregione che scaturirebbe dall’aggregazione meccanica di Marche, Toscana e Umbria, come la si sta sperimentando di recente, sarebbe di tutto rispetto. Supponendo che sia la somma esatta delle tre componenti essa ingloberà (si veda la tabella che segue) oltre 6 milioni di abitanti (10,2% della popolazione italiana) con quasi tre milioni di occupati (10,8%) e un po’ meno di trecentomila disoccupati (pari all’8,8% delle persone con più di 14 anni che cercano lavoro nel nostro Paese). La struttura produttiva si aggiusterà intorno alle attuali 600 mila imprese attive (12%). Il valore aggiunto generato, pari a 152 miliardi di euro nel 2014 (di cui quasi 27 mila ad opera della manifattura) corrisponde al 10% del totale nazionale, e il volume di esportazioni (manifatturiere) è pari a 48 miliardi di euro ovvero al 12% delle esportazioni totali italiane. Che alcune voci di spesa vadano a dissolversi è certo. Che il totale delle spese si riduca sarà da vedere. Non è nemmeno detto che le risorse si sposteranno dalla parte corrente al conto capitale. Si tratterà infatti di vedere se l’aggregazione di enti similari non comporterà aggravi di costi per l’ampliamento della scala operativa delle funzioni centralizzate e se i risparmi eventualmente conseguiti non alimenteranno tentazioni di varcare i confini dell’esistente per esplorare la possibilità di mantenere le spese correnti anche se per nuovi compiti di pubblica utilità. La proposta di Macroregione viene cavalcata, per ora, dalla volontà delle principali cariche delle tre amministrazioni regionali (Presidenti dei consigli o delle giunte e loro delegati) col corollario di qualche segretario di partito o di sindacato e di (ancora) poche personalità dei mondi della cultura, dell’economia o del sociale. Solo per le Marche si ha notizia di un sondaggio demoscopico condotto da Sigma Consulting per conto di una accreditata agenzia giornalistica. Il campione, formato da 1.000 cittadini marchigiani, si è espresso a maggioranza (57%) per l’ipotesi di una semplificazione del numero delle regioni. Per il 54% degli intervistati la soluzione più gradita sarebbe quella di una aggregazione tra Marche, Toscana e Umbria, mentre solo per il 22% sarebbe preferibile proiettare le Marche verso il Sud, a costituire una regione più grande, individuata come “adriatica”, insieme ad Abruzzo e Molise. Fin qui qualche numero e, in apertura, un breve ancorché illuminante richiamo per fissare le coordinate principali dell’iniziativa che si sta dispiegando in un clima apparentemente distratto.

Si tratta ora di capire se e fino a che punto potrebbero porsi delle soluzioni alternative. Preliminarmente, tuttavia, può essere opportuno integrare la citazione precedente ricordando alcuni ballon d’essai lanciati in tempi meno sospetti: quando si discuteva non solo di soldoni e di incarichi ma anche di autonomia, responsabilità, elettorato giudicante, ecc., insomma di federalismo. I primi esercizi di ricomposizione, le prime tessere territoriali ricomposte come in un caleidoscopio a grandezza naturale sono state quelle progettate all’interno di una iniziativa, certamente singolare e in parte inquietante presa, nel 1989, dal Club 1001, una associazione che raccoglieva il consenso e l’adesione di personaggi oltremisura eccellenti su scala mondiale. Il Club, presieduto da Filippo d’Edimburgo, aveva affidato, infatti, a uno dei suoi membri, il magnate olandese Alfred H. Heineken, titolare dell’omonimo marchio di birre, il compito di realizzare lo “studio di fattibilità” di un progetto di smembramento degli Stati nazionali europei. Heineken compilò lo studio e lo pubblicò in forma riservata. Lo studio suddivideva l’Europa in 75 mini-Stati, secondo criteri demografici: salvo qualche eccezione, ogni Stato non superava i 5 milioni di abitanti. Secondo lo studio di Heineken, l’Italia era da dividere in otto staterelli (Macroregioni): il Piemonte (formato da Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria); la Lombardia; il Veneto (Veneto, Fri uh Venezia Giulia e Trentino — Alto Adige) ; la Toscana (Emilia-Romagna e Toscana); l’Umbria (Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio); la Puglia (Molise, Puglia e Basilicata); Napoli (Campania e Calabria) e la Sicilia (Sicilia e Sardegna). A cinque anni di distanza, il progetto in questione veniva recepito nella sostanza da un progetto del leghista Speroni che nel 1995 era ministro delle Riforme istituzionali. Le differenze tra i due erano minime: il progetto Speroni aggiungeva un nono Stato, formato dalla capitale (dunque, nel nuovo linguaggio: una città/regione metropolitana). All’epoca, dunque, il terreno era pronto per far germogliare la proposta che è ancora oggi di riferimento: quella predisposta dalla Fondazione Agnelli. La proposta risale ai primi anni Novanta anche se, in effetti, già dal 1991 la Fondazione Agnelli veniva dedicando alla riforma in senso federale dello Stato e della Pubblica Amministrazione studi e riflessioni che hanno poi trovato momenti di sintesi in proposte di percorsi da seguire. Dai lavori promossi e/o patrocinati dalla Fondazione scaturiva, come noto, un progetto di riforma dello Stato in senso federale che si fondava essenzialmente su tre pilastri:

1) il primo pilastro: una revisione della seconda parte della Costituzione finalizzata a:

* definire un impianto federale ispirato ai principi della responsabilità, della trasparenza, della solidarietà e della sussidiarietà; * configurare l’istituto regionale come base portante della riforma, con tuttavia ampi margini di autonomia per gli enti locali, in particolare, comuni e aree metropolitane;

* introdurre un Senato delle Regioni;

2) secondo pilastro: un sistema di federalismo fiscale fondato:

* sull’autonomia impositiva delle regioni;

* sulla conseguente introduzione di una serie di tributi regionali;

* su trasparenti meccanismi di solidarietà fra i territori;

* sulla consistente riduzione dei trasferimenti statali;

3) infine, come terzo pilastro, il progressivo ridisegno delle Regioni (e anche dei Comuni) per evitare i rischi insiti nella dimensione sociodemografica troppo piccola di molte realtà di governo locale. Diventata nota come la proposta dell'”Italia in dodici regioni” la costruzione della Fondazione Agnelli è quella che ha suscitato, tra tante, la maggiore risonanza, anche se in realtà non costituiva che uno degli aspetti di una riflessione assai più articolata. Tra gli aspetti peculiari della riflessione proposta dalla Fondazione Agnelli vi era il fatto di fare riferimento ad un fattore relativamente nuovo: la centralità del movente geoeconomico nell’esercitare pressioni, su scala sovranazionale, sia sull’organizzazione sociale sia sulle strutture politico-istituzionali, specialmente nei Paesi europei e occidentali. Si riteneva, infatti (e non senza ragione), che le logiche della competizione permanente, diffuse a livello globale, presentassero alle economie e, di riflesso, alle collettività sfide sempre più complesse per effetto della estensione del numero e della qualità degli attori.

Non più, o non solo più, le imprese. Non più, o non solo più, gli Stati. Nell’essere veri protagonisti stavano definendosi territori e città, costretti dalla competizione a rafforzare quei fattori (economici, infrastrutturali, istituzionali, culturali e ambientali) che possano rendere tanto i primi (i territori) quanto le altre (le città) appetibili per ricevere nuovi investimenti, attrarre nuovi insediamenti produttivi ed evitare che quelli già presenti scelgano altre destinazioni. Tuttavia, per la costruzione e/o il rafforzamento dei cosiddetti fattori di “competitivita” di un territorio sono richiesti a tutte le élite di ciascuna regione o città importanti sforzi congiunti. Infatti è intuitivo che l’obiettivo di qualificare un’area per i suoi buoni collegamenti, per un capitale umano di ottima qualità o per una qualità della vita elevata non si raggiunge solo con l’impegno e le risorse degli operatori economici. I ruoli del settore pubblico, dei livelli di governo e della pubblica amministrazione locali sono altrettanto essenziali e restano, in questo senso, assolutamente centrali. Così come è centrale il ruolo del sistema delle autonomie espresse dalla società civile. Non a caso, da un po’ di tempo in qua, alla tradizionale nozione di “governo” si è affiancata, nei dibattiti e nelle analisi, quella, più estesa e complessa, di ””governance”. La prima confinata a indicare l’usuale gestione amministrativa della cosa pubblica mentre la seconda coltiva l’ambizione di rappresentare il massimo comune divisore delle diverse componenti che in una società hanno influenza e potere.

Su un ragionamento del genere poggiava la conclusione cui approdava la Fondazione Agnelli e cioè, nelle parole del Presidente dell’epoca, che un sistema di governo come quello federale, per il fatto di attribuire ai territori e alle città autogoverno, autonomia e maggiore controllo sulle risorse e sulle decisioni di prelievo fiscale, appare una soluzione adeguata (forse la più adeguata) per gestire nel miglior modo possibile l’opera di rafforzamento dei fattori competitivi in una determinata area’. Così, in definitiva, la possibilità di migliorare la capacità competitiva dei territori veniva collegata alla prospettiva di conseguire un’autonomia fiscale sostenibile. Di fatto, per quanto ci riguarda in questa sede, la proposta della Fondazione Agnelli era presentata in due versioni. In una l’Umbria veniva interamente accorpata alla Toscana. Nell’altra la si spezzava ritagliando le sue due province. Di queste una, Perugia, veniva comunque aggregata alla Toscana. L’altra, cioè Terni, veniva aggiunta al Lazio. Per parte loro le Marche venivano unite, in entrambi i casi, all’Abruzzo e al Molise. A partire dalla discussione innescata dalla proposta della Fondazione Agnelli il dibattito che è seguito ha preso il largo lungo due direttrici principali: 1) una, prevalente, caratterizzata dai tentativi di ritagliare il territorio in modo funzionale agli obiettivi dell’autonomia impositiva e del riequilibrio finanziario; 2) la seconda, minoritaria, tracciata da prese di posizione sui criteri di fondo su cui procedere al ritaglio e successive ricuciture della trama sub-nazionale. A proposito di quest’ultimo aspetto è comunque interessante ricordare che mentre numerosi e importanti geografi a precisa domanda rispondevano che, grosso modo, l’impianto delle regioni, salvo alcune imperfezioni, poteva ritenersi tollerabile se non pienamente fondato, uno tra i più autorevoli, il già citato Lucio Gambi, arrivava a sostenere che le regioni dovessero piuttosto essere considerate aree «di configurazione dinamica», e parti di «un sistema magnetico instabile, che si va in continuazione riequilibrando, per la continua dialettica, rigenerazione e ridimensionamento delle energie urbane»’.

In ogni caso le elaborazioni dei primi anni ’90 sono rimaste di riferimento per molto tempo, anche se soprattutto come perno di istanze di stampo federalista. Così è stato, ad esempio, per il comitato istituito dal Ministro delle riforme Francesco Speroni (1995), già ricordato, e tale era, ancora nel 2010, lo sfondo del decreto 2259 presentato in Senato dal Ministro per la semplificazione normativa (Roberto Calderoli).

Un punto focalizzato, è il caso di dirlo, sul “centro” della questione lo si fece nel 1997 ad Orvieto per iniziativa del CNEL. Nell’aprile 1997 i Presidenti delle Giunte regionali di Toscana, Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo, dopo una serie di incontri preparatori (alcuni dei quali avvenuti in sede CNEL), sottoscrivono un documento nel quale, partendo dal convincimento che i territori delle cinque regioni compongono nel loro insieme una macroarea che presenta una peculiare configurazione, con comuni caratteristiche e tradizioni culturali, socioeconomiche e geografiche che la differenziano da altre aree del Paese, si impegnano a individuare obiettivi programmatici e di sviluppo comuni per l’intera area centrale, assumendo un forte impegno affinchè il Centro Italia possa affermare le proprie potenzialità e vocazioni e sostenendo, con una integrazione delle politiche e degli indirizzi di governo locale, il dinamismo economico e sociale che lo caratterizza