Passeggiando per la Pieve, siamo abituati a vedere le fascinose costruzioni di mattoni antichi a vista come fosse un paesaggio posto lì da sempre, da prima dell’antropizzazione. E i tetti con le tegole? Tranquillamente popolati da colombi e cornacchie che convivono pacificamente. Non è stato sempre così. Molti e molti anni fa accaddero fatti che “noi umani nemmeno immaginiamo” e anche tra i pennuti non vi è quasi più memoria. Tuttavia qualche colombo di quelli vecchi tubando coi giovani, oppure le cornacchie, quelle anziane, gracchiando tra loro, probabilmente evocano l’epopea dei grandi conflitti… Ora non pretendo di essere creduto alla lettera però, quando ancora vivevo alla Pieve, di fronte al “Coppetta”, ma quando il locale era stretto e lungo. ( Ricordo una delle prime volte che ci andai con degli amici per mangiare il “bico” col prosciutto, ci accolse: “ Siete in quattro? Bene quel tavolo lì in fondo, preciso, come un dito in .” ) Vabbè tralasciamo l’ultima parola e ritorniamo al nostro discorso. Dicevo: sulla soffitta della mia casa di fronte al Coppetta, restauravo una vecchia libreria. Spesso mi giungeva all’orecchio il verso dei pennuti sparsi tra le tegole. E mi resi conto che se ascoltato con attenzione, quel tubare (e anche il gracchiare) è un vero e proprio linguaggio. Così rimanendo in silenzio e dimenticando per un po’ la realtà, riuscii ad ascoltare questo racconto che un vecchio piccione tramandava a due giovani pennuti che ancora… non si decidevano a lasciare il nido. Tutti uguali i giovani… (bamboccioni? Mmmhh! Purtroppo nemmeno i pennuti ereditano fabbriche di automobili…)
Ecco a voi:
“I nostri antenati, cari pulcini, avevano sempre convissuto pacificamente con le altre specie del popolo dei cieli. Nei momenti di pericolo poi era un unico variegato stormo che si alzava dai tetti, ed erano ampi giri tra il campanile del Duomo e la Torre del Pubblico. Cessato il pericolo si planava di nuovo sui tetti, dove non esistevano confini, steccati o muri a dividerci.
Un giorno Mistral, il nostro capo stormo di allora, radunò i suoi sudditi poi dichiarò: “Cari amici e compagni di vita, noi colombi siamo una razza nobile di uccelli. (Quando tra la folla si sente echeggiare la parola razza, non c’è niente di buono in arrivo cari). Una razza evoluta e culturalmente più ricca e raffinata. La storia ci impone una scelta. Dobbiamo poterci muovere da soli e da soli creare un fulgido futuro. Poi abbiamo bisogno di spazio! Per questo vi esorto: organizziamoci e cacciamo via le cornacchie! Verso tetti lontani!”. Quasi tutti i piccioni sbatterono le ali, ma così forte che qualche piuma svolazzò a mezz’aria per poi ricadere fluttuando sulle tegole tra nidi ed escrementi.
Quello stesso giorno, colombi più giovani e arditi che subito avevano aderito al richiamo del loro capo, formarono dei gruppi che saltellando, si avvicinarono alle cornacchie e presero a beccare quelle che si presentavano a tiro. Non c’era una ragione tangibile a giustificare questa aggressione, semplicemente volevano scacciare le cornacchie. Che dal canto loro, sulle prime nemmeno provarono a difendersi. Non si rendevano ancora conto di quello che stava per scatenarsi. Intanto qualcuno di quei giovani colombi, esaltandosi nell’aggressività incontenibile che li animava, prese a gridare: “ Via le cornacchie, cacciamole tutte via. Hanno piume diverse dalle nostre! Ecco era nata anche la ragione per legittimare la guerra: le cornacchie in effetti erano diverse, avevano la livrea completamente nera.
Ghibli, l’anziana e saggia matriarca delle cornacchie, capì che la linea degli equilibri si era spezzata. Di becco in becco si sparse la notizia delle scaramucce verificate e nel giro di poco tempo si costituì l’assemblea delle cornacchie. Ovviamente fu Ghibli a prendere la parola: “Care sorelle, nel giro di due lune piene dovremo iniziare la costruzione dei nidi. La convivenza con i colombi è diventata difficile e presto sarà impossibile. A voi la scelta: organizzarci, resistere, combattere? Oppure abbandonare il tetto sul quale siamo nati, dove sono nati i nostri figli, dove la nostra esistenza ha radici e fino a poco fa, futuro.” Contrastanti Cra-Cra serpeggiarono tra gli scuri pennuti. Poi prese la parola Cori, un giovane forte ed intraprendente, tra i più rappresentativi del popolo delle cornacchie. “Cara Ghibli e voi tutti fratelli e sorelle, ascoltatemi. Se andiamo via, chi ci assicura di trovare un altro tetto libero? Tutti quelli di nostra conoscenza sono occupati, come questo. Sì, ci sarebbe il campanile del Duomo, ma è troppo spiovente, va bene per spezzare il volo, anche come appoggio in imminente pericolo. Ma non è adatto ad allevare i piccoli. Qui sulla Torre il tetto è più pertinente per la quotidianità. Del resto, anche ne trovassimo uno libero, cosa difficilissima, si spargerà la notizia della nostra vile resa e altri pennuti sarebbero incentivati a scacciarci ancora, presumendo il nostro scarso coraggio. Per questi motivi se lotta deve essere, io propongo di organizzarci e resistere sul nostro territorio e conquistare per sempre lo spazio che occupiamo da tempo immemorabile.” Un unanime gracchiare di assenso si levò dal consesso delle cornacchie. La decisione era ormai presa. Guerra! Sarebbero seguiti tempi difficilissimi per le popolazioni dei tetti. Sicuramente sarebbe stato versato sangue innocente per motivi che non avrebbero mai potuto giustificare le atrocità della guerra.
Da quando erano cominciate le ostilità i piccioni non lasciavano la torre tutti insieme. Alcuni prendevano il volo e altri rimanevano a guardia del territorio. Non bisognava concedere ne spazio ne libertà di azione alle cornacchie. Dovevano andare via…o sul campanile del Duomo o da qualsiasi altra parte…magari giù sulla piazza del Plebiscito ad incuriosire i marmocchi o i turisti. Il tetto della Torre doveva essere esclusivamente dei colombi. Ormai sulla Torre il territorio era diviso in due parti, ognuna delle quali occupata rispettivamente dai colombi e dalle cornacchie. E se i colombi avevano le loro strategie tattiche e sorvegliavano i nemici, i neri pennuti, rivali, cominciavano ad organizzarsi anch’essi per combattere. Avevano ad esempio formato una sorta di avanguardie pronte a difendere i soggetti più deboli.
Una mattina, inavvertitamente, tre cornacchie sconfinarono nel campo nemico. Le colombe-sentinelle immediatamente diedero l’allarme: in men che non si dica i colombi, fieri, tronfi e impettiti marciavano contro gli invasori. Mistral era alla testa dell’esercito. Resasi conto della situazione Ghibli impartì, con sonoro e perentorio gracchiare, gli ordini per far fronte all’attacco. I primi che si trovarono uno di fronte all’altro furono Mistral e Cori. Si scrutarono compiendo evoluzioni preliminari alla lotta: gonfiavano il piumaggio e muovevano la testa in avanti e indietro minacciosamente e giravano su se stessi senza però mai perdersi di vista. Mistral tubava e Cori gracchiava, ambedue avevano nel verso il timbro rabbioso e irragionevole dell’ira e della sete di guerra. Erano due fieri duellanti che non concedevano spazio alla paura. All’improvviso, impavidi, si scagliarono uno contro l’altro e confusero i corpi in una violenta danza scandita da colpi di becco: sembravano sciabolate che, con pugnace abilità diventavano micidiali. I corpi erano contratti nella tensione dei muscoli e il tubare e il gracchiare si confuse in un unico, indistinto e fremente grido di guerra, che echeggiava in un vortice indefinito di piume scure e chiare. Ambedue colori si offrivano alla vista, in alcuni punti, contaminati di rosso. Un rosso vivo e pastoso. Nel frattempo anche il resto dei pennuti si era confuso in una zuffa furibonda. I loro uncini, terribili rostri, laceravano la carne ad ogni colpo. Piume e polvere si alzavano nello sbattere furioso delle ali. Questo terribile ballo dava luogo ad un groviglio di corpi che animati dalla vendetta erano ormai insensibili al dolore, volevano solo ferire, uccidere. La battaglia si protrasse per circa venti minuti. Cori si sentiva sfinito e cominciava a pensare di dover abbandonare il combattimento. Le cornacchie in effetti stavano per essere sopraffatte. Ghibli evitò di incitare i suoi guerrieri, una resistenza ad oltranza avrebbe condotto le cornacchie verso una inutile carneficina. Tuttavia anche i colombi benché più forti, erano stremati e si rendevano conto che le cornacchie erano valorosi guerrieri. Ghibli per dare segnale ai suoi fu la prima a retrocedere, ma durante la ritirata si spostò verso Cori aiutando quest’ultimo a respingere il fortissimo Mistral. Il campo di battaglia ormai sgombro dalla furia della guerra mostrava tutta la tragedia del conflitto, e l’orrore. L’inutilità della violenza si manifestava in quei corpi inerti abbandonati sulle tegole. Quei corpi tanto vigorosi nel volo, così attenti nell’allevare i pulcini, così scaltri nell’individuare le rotte del volo erano ormai vittime della guerra, in attesa di diventare banchetto per i gatti randagi. I feriti arrancavano verso i rispettivi territori accompagnati da atroci sofferenze. Qualcuno si trascinava mezzo spennato, con la pelle lacera, qualche altro con un’ala pendente, e c’erano pennuti zoppi che si attardavano a raggiungere la destinazione. E perfino gli occhi di alcuni guerreggianti erano stati colpiti ed erano ridotti a buchi neri e sanguinolenti. I due eserciti stanchi e sfiduciati per le comuni perdite riprendevano fiato nei propri territori e prestavano soccorso ai numerosi feriti ma, i condottieri soprattutto, volgevano il pensiero sul da farsi. Il sole intanto sfavillava alto e imperioso e dolce nel cielo, ma nessuno ci faceva caso.
Una mattina, calma, tiepida e luminosa, prima che i venti di guerra soffiassero, uno stridente rumore spaventò gli abitanti del tetto. Anche qualche sperduto passerotto e alcuni merli, casualmente tra i comignoli volarono via e naturalmente colombi e cornacchie allo stesso modo, disordinatamente, con rumoroso sbattere d’ali lasciarono il tetto.
Lo stridio era stato provocato da una porticina che quasi mai veniva aperta. Era la porta dell’abbaino che dava accesso al tetto. I pennuti nella concitazione della fuga erano riusciti a sbirciare l’uomo che si muoveva nel loro territorio e di tanto in tanto avevano colto una sorta di bagliori rossastri. Dopo pochi minuti dalla precipitosa fuga, il tetto era rimasto deserto, sembrava sonnecchiare in una pace funerea. Nel frattempo gli uccelli che si erano allontanati rammentarono una precedente, analoga situazione quando, dopo essere fuggiti per l’apertura della porticina, ritornarono e trovarono tutti i nidi spariti, compresi quelli con i pulcini implumi, e il tetto completamente libero da ogni traccia di pennuto sonnecchiava in una pace irreale e inquietante. Inoltre uno strano liquido nauseabondo li aveva costretti a disertare il loro vitale spazio per quasi una luna. In seguito poco per volta tutto era rientrato nella normalità. Forse anche questa volta si stava verificando la stessa situazione. Le femmine degli stormi furono le prime a ritornare planando sul tetto. Nel corso del rientro dove non mancarono scaramucce relative al conflitto in atto, rimasero molto colpite di trovare tutto al proprio posto: i vecchi nidi, quelli che stavano per essere formati, gusci disseccati di uova schiuse, grovigli di piume e guano. Solo, qua e là sparsi si trovavano mucchietti di cibo. Tanto cibo. Erano chicchi di grano, chicchi di grano come non se ne erano mai visti. Avevano un colore rossastro, uguale a quei balenii che gli occhi avevano colto durante la fuga. Le cornacchie guardavano il cibo incuriosite e qualcuna di esse beccò senza troppa convinzione un pochino di quei chicchi colorati. Non erano convinte di nutrirsene. Ghibli, assicuratasi che il suo popolo non beccasse quegli strani semi, non si diede troppo pensiero della circostanza. I colombi invece avevano una voglia irrefrenabile di tuffarsi nel cibo e ingozzarsi a piacimento. Anzi pregustando il banchetto obliarono perfino i nemici. Mistral aveva controllato minuziosamente i chicchi colorati. Aveva anche mostrato una certa diffidenza: “Fate molta attenzione” aveva consigliato “non mangiate subito a sazietà.” “Ma sono così belli!” qualcuno aveva fatto notare “devono essere anche buoni, per forza.” Nel giro di un’oretta, vincendo ogni ragionevole perplessità, molti colombi si erano sfamati di grano rosso. Tra le cornacchie invece solo pochi esemplari giovani si erano nutriti con una modestissima quantità di quegli strani semi. Passato ancora del tempo, alcune cornacchie e moltissimi colombi iniziarono ad avere la vista annebbiata, stavano male e respiravano con difficoltà. Non ci volle molto, il tetto si trasformò in una sorta di lazzaretto. Tremori, convulsioni, spasmi di ogni tipo tormentavano le povere vittime del grano rosso, consegnandole alla morte. E già molti cadaveri proiettavano sinistramente le zampette rattrappite verso il cielo come a voler trattenere la vita in un ultimo strenuo tentativo. Altri che avevano ingerito i semi fatali, provavano a reggersi sulle antenne dei televisori, ma la presa non era abbastanza energica e i corpi dondolavano in una macabra oscillazione che conduceva alla morte: e con un sordo tonfo: tumh! Precipitavano sulle tegole senza più muoversi. Tra le cornacchie c’erano stati dei malori, ma tra i colombi la comunità era allo sbando. Prima il conflitto, ora questa nuova sciagura metteva seriamente a rischio la loro sopravvivenza. Da un lato all’altro del tetto era uno scenario da stringere il cuore fino a soffocarlo. I moribondi se ne stavano con la testa sotto l’ala o addirittura col capo ciondolante, in attesa. Però… tutti quelli che erano scampati e guariti, avevano bevuto molta acqua. Quindi bevendo si poteva sopravvivere all’avvelenamento. Perciò acqua voleva dire salvezza. Già, ma l’acqua era presto finita. Le pozze tra le tegole del loro territorio erano essiccate. Il prezioso liquido abbondava nelle gronde all’altra parte del tetto, nel territorio delle cornacchie. L’acqua era il solo modo per salvarsi, ma andarla a cercare non era possibile per una comunità ormai in ginocchio, schiacciata da eventi che loro stessi avevano provocato con la guerra. Ormai sul tetto vigeva solo l’odio. La pietà, la solidarietà, l’amicizia, l’amore, erano sentimenti dimenticati.
Eppure doveva esserci una soluzione.
Mistral vagava meditabondo, con le ali che strisciavano nella polvere. Era lui che aveva condotto il popolo alla guerra e alla rovina. Se non avesse fomentato il conflitto, sicuramente avrebbero avuto aiuto dalle cornacchie oltre che accesso all’acqua. Ora per le sue scelte sbagliate e guerrafondaie vedeva il popolo dei piccioni della Torre ridotto ad un misero drappello prossimo all’estinzione.
Alla fine si decise, avrebbe riconosciuto alla cornacchie valore, coraggio e legittimità di occupare la parte di tetto che costituiva il loro territorio. Avrebbe inoltre, chiesto scusa per la sete di potere che lo aveva accecato. E dopo tutti insieme avrebbero stipulato un patto per una convivenza pacifica e un futuro senza guerre.
Quando Mistral si presentò nel campo nemico, grande fu lo stupore di tutti gli abitanti del tetto. Il suo parlare fu saggio e da tutti condiviso. La pace si ristabilì. I colombi contagiati poterono salvarsi immergendo nell’acqua il becco e bevendo a sazietà, fino a disintossicarsi. Il gracchiare ed il tubare si confusero di nuovo armoniosamente diffondendosi fino all’orizzonte. Un orizzonte rosso acceso che lasciava prevedere un domani assolato e bello. Infatti all’indomani, quando i pennuti si destarono, il tramonto si era trasformato in una magnifica alba che annunciava un futuro di pace. E così fu.
Infatti ancora oggi sulla Torre, colombi e cornacchie convivono serenamente come tanti anni fa sancirono Mistral e Ghibli insieme al popolo dei colombi e delle cornacchie.
Nunzio dell’Annunziata