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Terza pagina. Quel mito (infondato) dell`Umbria rossa di Alberto Stramaccioni

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Continuiamo a pubblicare commenti e riflessi i sulla politica in Umbria dopo le elezioni regionali dello scorso anno. Questa volta pubblichiamo un intervento di Alberto Stramaccioni, oggi docente presso l’Università per Stranieri di Perugia e per lungo tempo dirigente di prima linea, nonché parlamentare  del PCI, e dei partiti che poi sono seguiti. (N.d.R)

 Estratto da PASSAGGI del 08-01-2016  di Alberto Stramaccioni

 La recente pubblicazione, a cura dell’Isuc, della Storia dell ‘ Umbria dall’Unità a oggi , in due volumi editi da Marsilio, e i commenti seguiti alle ultime elezioni regionali hanno riproposto la riflessione sui caratteri dell’identità storico-politica dell’Umbria. Una questione sulla quale si discute da decenni, ma che oramai non può non essere collocata nel contesto di una riflessione sul futuro delle Regioni in Italia nel quadro di una riorganizzazione della presenza dello Stato nel territorio.

D’altronde, i persistenti processi di globalizzazione nel quadro di una profonda crisi finanziaria ed economica europea e mondiale chiedono che soprattutto i territori e, in generale, il “locale” e il “nazionale”, esercitino una funzione ed un ruolo diverso dal passato. A questo proposito, non è forse superfluo sostenere che se si vuole cambiare strada occorre contrastare quella che da decenni, almeno in Umbria, si è andata affermando come una specie di “ideologia regionalista” la quale ha contribuito a costruire una particolare identità storico-politica dell’Umbria contrassegnata da una visione sostanzialmente autarchico-provincialistica che ha rischiato di isolare un territorio e la sua popolazione dai grandi processi di crescita e sviluppo nazionali e internazionali.

Come accennato, non è certo questa una visione storico-politica manifestatasi recentemente proprio perché nasce in qualche modo con la creazione della Provincia dell’Umbria nel 1861, cresce nell’era giolittiana e ancora di più si afferma nel ventennio fascista. Ma è nel periodo repubblicano che assume connotati più precisi allorquando il miracolo economico vede la crescita di molte aree del paese mentre l’Umbria mantiene la sua forte arretratezza economico-sociale.

In questa fase storica i principali sostenitori dell’ideologia neo-regionalistica diventano i partiti politici e in particolare la Dc, il Pci e il Psi, i quali pensano che l’Umbria possa superare il suo storico sottosviluppo solo attraverso un forte impegno dello Stato nazionale attraverso investimenti pubblici per la promozione dell’industria, dell’agricoltura, del sistema infrastrutturale e professionale. Ed è proprio in questo periodo che una diffusa alleanza politica tra il Pci e il Psi ottiene un vasto consenso elettorale e conferisce alle sinistre la responsabilità di governare la quasi totalità dei Comuni e le due Province, mentre la Dc si afferma in Umbria come il partito egemone del governo nazionale. E’ questo il quadro in cui nasce il mito dell'”Umbria rossa” inespugnabile e della sua presunta immutabilità politico-elettorale e lo slogan viene assunto anche come bersaglio propagandistico dalle opposizioni e da gran parte della stampa. In realtà, accanto all’ Umbria rossa dei mezzadri e degli operai c’era un’ altra Umbria, quella dei mille grandi e medi proprietari terrieri, quella della Chiesa e quella del potere bancario ed universitario che esprime un suo sistema di potere ed una forte consistenza elettorale.

Infatti, già negli anni Cinquanta e Sessanta in Umbria si afferma un’organizzazione del potere a due facce, espressione di una diarchia politica, nazionale e locale, che vede le sinistre al governo del potere locale e il fronte cattolico e moderato alla guida del governo nazionale. Questa organizzazione dell’assetto politico e di potere dell’Umbria si consolida a partire dal 1970, allorquando nasce la Regione e l’Umbria diventa agli occhi dell’opinione pubblica nazionale una delle tre Regioni rosse insieme alla Toscana e all’Emilia Romagna. Il successo di immagine propagandistico dell'”Umbria rossa del buon governo”, soprattutto nei primi anni Settanta marginalizzava la realtà effettiva dell’assetto di potere della diarchia umbra e di certo non portava a considerare le profonde diversità esistenti tra una “regione inventata” (qual è l’Umbria), una erede del Granducato di Toscana e un’altra ancora frutto dell’

identità cispadana e cisalpina. Troppo spesso sull’onda di letture emotive e contingenti della realtà regionale (tipiche dei commenti più o meno a caldo ai risultati elettorali) ci si dimentica di questi caratteri identitari e fondativi di tipo storico-politico dell’Umbria e si parla con grande superficialità di “svolte elettorali storiche” e di “mutazioni genetiche”, di “possibile contendibilità” elettorale della Regione dopo mezzo secolo di “potere rosso”, quando ci si trova invece di fronte a una normale evoluzione elettorale, comune peraltro al resto del paese, ma anche analoga alle altre Regioni rosse del “modello appenninico”. Ci si dimentica infatti che fino al 1963 il partito di maggioranza relativa in Umbria era la Dc. Ci si dimentica poi che quando il Psi ha deciso, per ragioni nazionali o locali, di non governare più con il Pci, ma con la Dc, comuni importanti come Perugia, Foligno, Spoleto, Città di Castello, Gualdo Tadino e altri minori, nel 1964, vengono amministrati dal centrosinistra Dc-Psi. Ci si dimentica inoltre che anche negli anni Ottanta il Pci, pur di conservare le Giunte di sinistra ai vari livelli istituzionali, era disposto ad eleggere sindaci, assessori e presidenti appartenenti al Psi, un partito che raccoglieva comunque intorno al 20% dell’elettorato.

Ci si dimentica cioè dell’esistenza politica dell'”altra Umbria” e del suo consistente peso elettorale. Ma soprattutto ci si dimentica del ruolo storico svolto da quel ceto medio allargato con una forte connotazione urbana costituita da quel mix di liberi professionisti e funzionari dell’amministrazione pubblica che per decenni è stato l’ago della bilancia della politica umbra.

Un ceto e una borghesia senza una grande considerazione di sé e della propria funzione sociale dirigente, molto spesso subalterno al potere politico-amministrativo, ma al contempo in grado di organizzarsi come lobby e centro di potere il cui orientamento politico elettorale è risultato molto spesso decisivo nelle varie competizioni amministrative e anche nelle nomine in importanti enti gestionali e amministrativi.

Questo ceto ha avuto una sua particolare rilevanza quando a partire dagli anni Novanta, a seguito delle nuove leggi elettorali per l’elezione diretta di sindaci e presidenti, si è affermato anche in sede locale una specie di sistema politico bipolare dove la sfida tra i due schieramenti si è spesso giocata su percentuali minime, soprattutto nelle competizioni rinviate al secondo turno.

D’altronde, sia il Pci negli anni Sessanta e Settanta, ma poi anche il Pds, i Ds e infine il Pd raccoglievano e raccolgono un consenso elettorale intorno al 40% – pochi punti in più, pochi punti in meno — e se volevano avere una maggioranza per governare Regione, Province e Comuni dovevano essere capaci di attuare un sistema di alleanze politiche e sociali, a volte città per città o territorio per territorio, che legittimassero quello schieramento nella funzione di governo fino a fargli ottenere almeno il 51%.

Quando, per varie ragioni, queste alleanze politico-elettorali non hanno dato luogo ad uno schieramento di centrosinistra largo, plurale, rappresentativo di un’area di interessi sociali e territoriali molto compositi e con candidati autorevoli, lo schieramento è uscito sconfitto.

A dimostrazione di ciò basta ricordare che negli ultimi venti anni nell’Umbria “regione rossa” non c’è stato un grande Comune (insieme a molti altri più piccoli) che non sia stato governato dal centrodestra — da Terni a Todi, da Orvieto a Spoleto, da Bastia Umbra ad Assisi a Perugia — a testimonianza non solo dell’alternanza possibile tra i due schieramenti, ma anche del fatto che negli anni del post-regionalismo, della fine delle contrapposizioni ideologiche, a decidere sono la qualità, la competenza e la popolarità dei candidati sindaci e presidenti assieme agli obiettivi del programma amministrativo e, soprattutto, alla rete di alleanze politiche e sociali che sostengono gli schieramenti e i candidati. Questa interpretazione dell’andamento politico elettorale dell’Umbria è anche dimostrato dall’andamento del voto sui sindaci nei vari Comuni e, da ultimo, sul candidato presidente della Regione, dove lo stesso presidente eletto è giunto secondo in molte realtà locali.

Quindi, quello che un tempo era definito il ceto medio professionale è stato, e oggi in altre forme e consistenze è diventato, il soggetto politico-sociale destinato a segnare in positivo o in negativo gli orientamenti politico-elettorali in Umbria.

Si tratta di una specie di “terza forza” prima tra la Dc e il Pci e poi tra il Centrosinistra e il Centrodestra, certamente un’aggregazione variabile socialmente e politicamente nel tempo e non identificabile del tutto prima con il Psi e il Pri e poi con le formazioni ex Dc o ex Psi nel sistema bipolare degli ultimi venti anni.

Nel primo cinquantennio dopo l’Unità d’Italia in Umbria era la massoneria come partito trasversale ad esercitare questa funzione aggregativa tra uno schieramento conservatore e liberale moderato, largamente prevalente socialmente e politicamente, e una sinistra progressista mazziniana e garibaldina, fortemente minoritaria. Molti esponenti della Destra e della Sinistra facevano parte delle organizzazioni massoniche, segnate da un prevalente carattere anticlericale che non era comunque una posizione insuperabile laddove si trattava di realizzare transazioni, investimenti immobiliari o in proprietà terriere, o sostenere scelte amministrative con forti interessi locali e familiari o di alcuni gruppi di potere ristretti e ben definiti.

Gli appartenenti alle organizzazioni massoniche erano inoltre legati da una fitta rete di parentele che univa responsabili delle istituzioni, proprietari terrieri, professionisti e funzionari dello Stato, fino a configurare un’oligarchia agrario-urbano-massonica espressione dell’insieme di quella classe dirigente che sarà protagonista per molti decenni della vita politica, economica e sociale dell’Umbria.

Questa aggregazione politica e sociale rappresentata dalla borghesia professionale e urbana, cresciuta quantitativamente negli anni del giolittismo, svolge una funzione centrale nell’affermazione e nel consolidamento del regime fascista anche in Umbria. Nel corso del ventennio il fascismo si muove tra il vecchio e un nuovo sistema di potere nel quale assumono rilevanti responsabilità politiche e amministrative, soprattutto nel Perugino, gli esponenti della nuova borghesia costituita da avvocati, notai, ingegneri, insegnati e medici, mentre più defilato è il sostegno da parte degli esponenti della tradizionale nobiltà e aristocrazia cittadina, e la stessa organizzazione del potere di Perugia è presente nelle altre città umbre.

Nel secondo Dopoguerra liberali, azionisti e repubblicani sono nominati sindaci e presidenti dagli Alleati, mentre tecnici e professionisti, certamente sotto la spinta dei principali partiti politici, sono i protagonisti dei diversi Piani regionali nella stagione della programmazione economica dello sviluppo. Con l’avvento della Regione molti esponenti di questo ceto professionale e amministrativo diventano i soggetti protagonisti e gestori di una politica basata su un crescente intervento dello Stato nell’economia e nella società, per favorire la crescita e lo sviluppo di una regione particolarmente arretrata. D’altronde, negli anni Sessanta e Settanta era cambiato il volto delle città e delle campagne, era cresciuta la scolarizzazione e la neonata Regione aveva raccolto la domanda di modernizzazione di tanti piccoli imprenditori e proprietari terrieri, mezzadri e contadini inurbati che vedevano nello sviluppo economico l’opportunità per la loro affermazione individuale e collettiva.

Per tante e diverse ragioni questo ceto professionale e burocratico-amministrativo (cresciuto peraltro quantitativamente in modo consistente negli anni Settanta e Ottanta), con la crisi e la delegittimazione del ceto politico, negli anni Novanta assume un potere ed un ruolo sempre più esteso nello Stato come nelle istituzioni e negli assetti del potere locale.

D’altronde, dagli anni Novanta si afferma sempre di più in Umbria la figura sociale e politica di quella specie di tecnico-politico che spesso assume il doppio incarico di funzionario-dipendente dello Stato e amministratore nel governo locale. Una figura che si afferma nel pieno della crisi dei partiti e della politica ed esprime un’originale commistione di ruoli poiché può dirigere un settore burocratico della Regione come dipendente della stessa ed essere contemporaneamente sindaco o assessore in un Comune o dirigente di un’Azienda sanitaria o municipalizzata. E in più questa figura del tecnico-politico diventa il soggetto abilitato alla gestione di settori delicati come quelli dell’urbanistica, del commercio, della sanità e della programmazione economica in sintonia con altrettante competenze tecniche attive nelle organizzazioni industriali, sindacali, commerciali e nelle istituzioni formative e delle Università.

La funzione e il potere di questo ceto tecnico-burocratico-professionale segna l’Italia liberale e giolittiana e quella fascista, mentre spiega in gran parte il passaggio dall'”Umbria nera” all'”Umbria rossa” e la stessa evoluzione politico-elettorale dagli anni Novanta in poi. Una linea di continuità in un certo assetto del potere di tipo abbastanza oligarchico è garantita da alcune idee guida che hanno caratterizzato nei decenni questo ceto.

Esso è infatti segnato dalla volontà e capacità di finalizzare la spesa pubblica dello Stato con il sostegno di un sistema politico fortemente consociativo. Oggi, nel secondo decennio del Duemila, è questo ceto, o figura sociale diffusa, ad essere diventato protagonista di molte scelte politiche ed amministrative in Umbria e soggetto aggregante di una consistente forza elettorale (enfatizzata dal crescente astensionismo) che punta ad esercitare una funzione centrale nel mercato elettorale, in quello delle preferenze o delle consultazioni primarie per la scelta dei candidati.

Tutto ciò è dipeso certamente dalla scomparsa dei partiti politici che, pur con i loro numerosi limiti ed errori, spesso contenevano gli interessi di ristrette lobby o gruppi sociali minoritari ed oggi, quindi, il ceto politico-amministrativo appare prigioniero e subordinato al ruolo esercitato da “funzionari e dirigenti”. Qui sta una delle ragioni della persistente delegittimazione della politica e dei politici o, se si vuole, più nobilmente, la politica oggi appare sconfitta dalla burocrazia, dalla tecnologia e dalla globalizzazione.

Ma forse la ragione fondamentale della crisi della sinistra e del centrosinistra in Umbria, come nelle altre regioni rosse, sta nel non essere riuscita a ridefinire un proprio ruolo ed una nuova identità di fronte alla crisi dello Stato sociale e alla forte e progressiva riduzione della spesa pubblica. Nata come artefice dello Stato sociale, oggi la sinistra, di fronte alla sua crisi, rischia di smarrire la propria funzione politica di ridistribuzione dei redditi per il superamento delle diseguaglianze.

E tanto più ciò avviene nel vivo di una profonda crisi finanziaria ed economica europea e internazionale. I risultati delle ultime elezioni regionali non ci hanno detto quindi molto di nuovo poiché la crisi identitaria e politica della sinistra, anche in Umbria, viene da lontano. I cittadini astensionisti e gli elettori umbri hanno solo (ma non è certo un messaggio di poco conto) rinnovato la richiesta di politiche riformatrici seguite da una maggior giustizia sociale e da un ceto dirigente onesto, competente e rappresentativo degli interessi di un’intera comunità.

Alberto Stramaccioni

ARCHIVIO DEL CORRIERE PIEVESE
9 GENNAIO 2016