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L’Umbria e il declino economico-politico

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Rassegna Stampa. Dal Nuovo Corriere Nazionale di Giuseppe Castellini

Venti anni di declino, quelli dell’Umbria. Che trova le sue origini nella seconda metà degli anni Ottanta, quando si affievolisce la spinta propulsiva precedente. Un declino che, inevitabilmente, s’intreccia con la storia sociale e politica della regione. Nella seconda metà degli anni Ottanta, infatti, avvengono trasformazioni che prima rallentano e poi fanno cessare lo slancio, che, prodigiosamente, aveva permesso alla regione di recuperare il grave ritardo accumulato. Va ricordato che nei primi anni Sessanta (ci furono due dibattiti parlamentari nel 1960 e nel 1966) l’Umbria era messa così male da arrivare, se non erro per ben due volte, all’attenzione di un’approfondita discussione parlamentare, visto che era una regione del Centro con indici economici da Sud.

L’Umbria, dalla fine degli anni Sessanta, con l’industrializzazione trainata dall’industria leggera (meccanica, tessile…) compie una corsa che la porta, da regione povera, ad avere nel 1984 un Pii (prodotto interno lordo) per abitante pari alla media nazionale. Un recupero da togliere il fiato. Il ceto politico dell’epoca è l’espressione di questa spinta, in cui un ruolo lo ha anche la Regione, artefice con sindacati e industriali di quel patto (retribuzioni più basse per alleggerire i conti delle imprese e favorire gli investimenti, ma nel contempo costruzione di un welfare capillare ed efficace che ai lavoratori faccia recuperare quella perdita di retribuzione) che dette benzina economica e compattezza sociale alla crescita, insieme anche a un atteggiamento degli enti locali molto spinto a favore degli insediamenti di aree produttive.

La spinta rallenta nella seconda metà degli anni Ottanta alcune famiglie capitalistiche umbre vedono le loro aziende sfiorire, non capaci di passare da gestioni sostanzialmente familiari e conduzioni manageriali in grado di affrontare cambiamenti profondi del mercato. Altre semplicemente vendono. Questo ha un impatto importante, perché di fatto la regione scende di serie, perdendo (come sarà poi per il settore bancario) centri direzionali e la ‘polpa ricca’ dell’attività industriale, come la promozione, il marketing, l’ingegneria finanziaria, insomma quello che era allora il terziario avanzato.

Il riassetto del settore manifatturiero, il cavallo che aveva trainato l’Umbria fuori dalle secche, fa il resto. A completare il quadro, nuvole sempre più pesanti si addensano sul polo siderurgico ternano, che da lì a qualche anno affronterà una profonda trasformazione al ribasso. L’Umbria si trova insomma senza più ‘campioni’ industriali propri, essendo passati in mani altrui che tengono perse ‘la polpa ricca’ dell’industria, il valore aggiunto pregiato sia da un punto di vista economico che sociale.

Intanto, la presenza del settore pubblico si è espansa molto e la sua alimentazione economica inizia a farsi sentire in un quadro economico che, rispetto a prima, è deteriorato. La burocratizzazione dell’apparato pubblico diventa così un doppio problema, di costo e di efficienza.

Nel 1995, quando Bruno Bracalente viene eletto presidente della Regione sull’onda del rinnovamento determinato dagli scandali che nella regione avevano colpito l’asse di governo Pci-Psi, il Pii per abitante dell’Umbria è ancora superiore a quello medio nazionale (fatto 100 quest’ultimo, nel 1995 il Pii prò capite umbro è 103,7), forse anche per la spinta della ricostruzione post terremoto del 1997. Ma il motore tossisce. Bracalente, in sinergia con Confindustria, spinge da tre lati: il primo è la famosa “Regione leggera”, ossia ridurre il costo della macchina pubblica per ridurre il peso su imprese e famiglie; il secondo è la voglia di dare maggiore spazio al mercato, così da permettere la crescita del settore ‘autonomo’ (ossia che si confronta sul libero mercato, non dipendendo o dipendendo poco dalla regolazione amministrativa); il terzo è spingere sulla leva della qualità dei processi e dei prodotti imprenditoriali, in particolare dell’industria (sono gli anni in cui, ad esempio, Confindustria valorizza molto l’iniziativa ‘II mese della qualità’). Insomma, una sorta di ritorno, aggiornato e rivisto, allo spirito degli anni Settanta, con un’economia che si confronta con il mercato. Perché in realtà sta avanzando con forza un altro processo, che è quello del ‘galleggiamento’ dell’economia regionale basata su due pilastri: l’edilizia e il commercio.

Due settori ‘ non autonomi ‘, strettamente dipendenti dalla regolazione amministrativa. Bracalente va controvento, e i nuovi poteri non lo sentono ‘loro’. Così, con un’operazione portata avanti dall’allora segretario regionale dei Ds, Alberto Stramaccioni, non viene ricandidato. Il partito, finita l’ era dei professori si riprende la guida e aderisce come una spugna ai nuovi equilibri economici, riconoscendoli e supportando le nuove leadership sociali.

A guidare la Regione viene candidata Maria Rita Lorenzetti. I nuovi poteri la considerano affidabile. È stata presidente della commissione Lavori pubblici della Camera e sa come muoversi nei settori dipendenti dalla regolazione amministrativa. In più è capace di mobilitare e intermediare finanziamenti dello Stato, che fanno gola alle imprese umbre che gravitano nel settore delle opere pubbliche. In più, ancora, è di ferreo rito dalemiano, allora ‘dominus’ dei Ds, il che apre porte importanti. La Lorenzetti, donna pratica, in realtà si muove su vari fronti, ma nella sostanza quello che le da forza, oltre alla gestione di ingenti finanziamenti europei di Agenda 2000 (la sua è la presidenza dell’Umbria che ha potuto contare su più risorse europee), è il blocco economico, ma anche politico e sociale, edilizio-commerciale. Un fiume sul quale la Lorenzetti mette la barca e naviga, visto che la corrente è quella. La trasformazione degli assetti economici e sociali è evidente: in Confindustria i rappresentanti del ciclo delle costruzioni sono quelli in gran spolvero e l’Ance diventa il segmento forte, economicamente e politicamente, dell’associazione degli industriali. Le organizzazioni del commercio, a cominciare da Confcommercio, salgono di importanza, così come le sigle sindacali dei lavoratori di questi due settori. Come diventano potentissime le catene cooperative del commercio, a cominciare da Coop Centro Italia, che macina risultati su risultati. Il sistema appare solido, anche perché sono anche gli anni della ricostruzione post terremoto, che da una spinta all’economia regionale ed esalta il settore opere pubbliche – costruzioni e, a caduta, il commercio (soprattutto la grande distribuzione). Ma non è così. Perché l’Umbria, che la Lorenzetti aveva preso con un Pii prò capite che, come detto, nel 1995 era pari al 103,7% della media nazionale, alla fine del primo quinquennio della sua presidenza lo vede sceso al 99,5%, quindi sotto la media italiana, nonostante la spinta della ricostruzione. E lo stesso avviene nei confronti del Pil pro capite del Centro-Nord, con la distanza dell’Umbria che si allunga di due punti percentuali. E la produttività declina (è tipico quando le economie sono basate troppo sui settori del ‘motore non autonomo’), cosa che suona sempre come foriera di guai successivi.

(continua)