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Lacrime, sorrisi e arcobaleni

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Tutto quello che ci capita diventa esperienza, però a volte non si fa in tempo ad averne fatta una che se ne presenta un’altra totalmente diversa, che capovolge le convinzioni che avevamo dedotto dalla precedente. Così alla fine ho pensato che vivere è come leggere un libro di racconti, si ride, si piange, ci si commuove, ci si arrabbia e si ama a seconda della storia che viviamo in quel momento. Io ho sempre avuto una predilezione per le fasi della mia vita dove l’amore era in ballo, amore nell’accezione più ampia del termine. Ma si sa che anche le pagine tristi ci sono e non si possono cancellare, bisogna “leggere” fino in fondo il “racconto della vita” e sperare che il successivo sia migliore. Questa storia che segue è realtà e accadde a me tanti anni fa.

 Questo racconto è dedicato a mia moglie che come la maggior parte delle mamme, ma lei un po’ di più, seppe impugnare la spada e lottare come una vera guerriera a difesa del figlio. Più di me.

 

Quando non frugo nella mente sembra che tutto sia sparito, dimenticato, come trascorso in una notte o in un sogno. Una cosa da niente. O meglio una cosa capitata ad un conoscente che ci devo pensare affinchè riaffiori nella mente. E’ una fortuna che l’essere umano metabolizzi tutto: il male non sembra più tanto male e il bene ci appare addirittura come una condizione normale. Quando passa il tempo male e bene, ma soprattutto il male, appaiono tinte lavate dalla pioggia, levigate dal tempo, coperte dalla polvere dei nuovi eventi e riposte dentro uno scrigno nella parte più intima di noi e solo quando lo  decidiamo abbiamo la possibilità di entrare nel ricordo. Se buttassimo via la chiave dello scrigno, il passato sparirebbe. La nostra anima resterebbe mutilata. Dentro di noi si aprirebbe una caverna che soltanto i ricordi belli o brutti possono colmare.

Ora che ci penso ad esempio, mi viene in mente l’intero dramma.

Tutto cominciò con una visita pediatrica di routine dopodichè gli eventi precipitarono, attraverso un uragano nel mare burrascoso della vita. Fu come un’onda gigantesca che sommerse e dilagò nell’esistenza spazzando tutto via: certezze, amicizie, passioni. Tutto sparì e cominciò una corsa contro il tempo: esami-ospedali-medici-infermieri-altreanalisi-radiografie-ecografie-biopsie-ancoraanalisi-chemioterapie. Una sorta di terremoto spaventoso che ebbe l’epicentro nella mia famiglia. Un sisma che sconquassò la vita da cima a fondo.

Quando avevano scoperto la malattia, mia moglie aspettava il nostro secondo figlio. Così ci ritrovammo sballottati noi tre e il nascituro tra ospedali e ambulatori.

Poi ricordo il dottor Acquaviva : “Venga signor Dell’annunziata, si accomodi”  entrai nello studio dalla corsia dell’ospedale, “tutte le analisi sono state effettuate e la diagnosi conferma i sospetti”.

La patologia non voglio nemmeno nominarla. Si stampò a caratteri cubitali nel cervello. Che parola terribile. Evocava un mondo di mistero, paura, di morte. Al suo solo pensiero si veniva inghiottiti da una voragine di terrore, di lutto, di tragedia. Fu come una freccia a rallentatore che entrò da sotto i piedi e attraversò tutto il mio corpo, fece una giratina nel cervello mettendolo a soqquadro poi ridiscese per fuoriuscire da dove era entrata. Da quel momento la vita cambiò, i rapporti umani e sociali subirono una brusca virata. Del resto anche per gli altri non è facile l’approccio con gente inchiodata  alla croce di siffatti problemi. E  tanti cercano di consolare con frasi banali che per lo più risultano irritanti. Inaspettatamente però, proprio le persone dalle quali non ce lo aspetteremmo riescono a trovare parole, espressioni del volto, esempi, buoni auspici che posso dire alleviano la nostra pena. Avviene una sorta di stravolgimento sociale: alcuni amici non sembrano pià amici e viceversa.

E poi andammo a Genova. Al Gaslini. Arrivammo di sera. Trovammo una camera e riuscimmo perfino a sederci in una pizzeria, come gente normale in attesa di un altro figlio…Dopo settimane, quella pizza rappresentò una cena a ricordarci che anche se sgangherata e in balia dei venti, eravamo ancora una famiglia.

Quando ci presentammo nel reparto di oncologia pediatrica fummo accolti da un medico che provò ad illustrare la strategia terapeutica, solo che non aveva letto la lettera con la quale ci avevano mandati a Genova e le sue parole erano frutto di improvvisazione…ma questo non inficiava l’assoluta professionalità del centro. Solo che in quel momento, un genitore scosso, provato, prostrato è bisognoso, non dico di certezze, ma almeno di parole che esprimano un chiaro e concreto progetto terapeutico.
Un primo importante passo fu la biopsia…della quale serbo nel ricordo una sensazione di estremo disagio, di mancamento. Ancora mi vengono i brividi se accendo nella mente l’immagine di mio figlio quando uscì dalla salae operatoria. Era in preda ad una sorta di pianto convulsivo. Io guardavo l’esile corpicino tremante. Tre anni. Un bimbo di tre anni, in mani estranee, non del tutto sveglio dall’anestesia, barcollava probabilmente nelle allucinazioni. La gente intorno erano ombre e forme distorte che sembravano mostri pronti a staccarlo dalle braccia dei suoi genitori, dove aveva bisogno di abbandonarsi per trovare una dimensione adatta alla sua età. Quando potemmo accarezzarlo fu già meglio, ma il primo impatto visivo, quando gli infermieri spingevano la lettiga,  avevo sentito il lupo ancestrale dilaniarmi il corpo, il cuore, l’anima. Ora bisognava attendere l’esito della biopsia. 
“ Abbiate pazienza, ci vuole qualche giorno. Sarete subito informati” del resto oltre a queste parole cosa altro potevano dire i medici? Ma i genitori erano lì, in bilico con la spada di Damocle più appuntita che mai pronta dalle finestre del destino ad abbattersi sulla vita. E restammo nell’atroce attesa di scoprire che tipo di cancro era, se rispondeva alle chemio, se c’erano speranze fondate di guarigione….

Sì era un tipo di neoplasia che rispondeva alle terapie chemioterapiche.

Intanto la gravidanza di mia moglie andava avanti e nonostante il pancione si divideva tra i suoi due figlioli: uno dentro e l’altro fuori…
Un giorno poi, in un periodo nel quale stavamo a casa perchè i cicli di chemio e altre fasi ordinarie della terapia non necessitavano della permanenza al Gaslini, eravamo all’ospedale di Montepulciano, alla pediatria che era accanto alla maternità.  Mio figlio aveva da pulire un cateterino dal quale avvenivano i prelievi e dal quale somministravano i farmaci. E mia moglie era in ostetricia, perchè era stato programmato il cesareo.“Venga signor Dell’annunziata, venga è nato”.

Fu una sensazione strana…che non riuscì a sfociare nella gioia. Bisognerebbe esserci per capire, si è  divisi all’incrocio della vita tra speranza disperazione stanchezza lacrime sorrisi. E non si sa quale sentiero imboccare…Comunque prendemmo la direzione dell’ostetricia. “Sai il tuo fratellino e nato? E ti ha portato un regalo?”

Quando entrammo nel reparto ci dirigemmo dove il nuovo arrivato veniva lavato. Era su un fasciatoio poggiato sulle ginocchia in posizione fetale, appena posai lo sguardo su di lui si concentro su una smorfia e pianse: gli facevano una puntura….gli diedi il benvenuto nel mio cuore.

“Guarda che bel regalo ti ha portato il tuo fratellino” era un camion dei pompieri con la scala che si allungava. Bello grosso. “Babbo ma come ha fatto a portarlo? E poi grosso com’è, ci stava nella pancia della mamma?” “Avoglia se c’entrava” svicolai io.

Nella situazine penosa della malattia qualche volta avevo voglia di morire, ma non era vigliaccheria, certo che volevo esserci per aiutare mio figlio, solo che, soprattutto al Gaslini, si incontrava tanta concentrazione di piccoli malati sofferenti che ritenevo di poter morire perchè avevo già visto abbastanza. Come se tutta la quintessenza dell’umano stato fosse racchiusa nell’esperienza che vivevo in quel momento, per cui oltre quella drammaticità non c’èra altro da vedere.

Comunque tra alti e bassi, successi e delusioni arrivarono a programmare l’intervento chirurgico. Mi fecero firmare alcuni fogli dove accettavo i rischi che mio figlio correva…  “Senta” mi disse il medico che si occupava delle scartoffie “noi si spera bene, comunque questo non è un intervento semplice. Non è l’appendicite”.

Nella saletta della preanestesia c’erano tre lettighe e c’era un impianto di illuminazione moderno ed efficiente. Alcuni pupazzi occupavano una mensola e vari altri giochi uno scaffale. I pupazzi erano strapazzati, avevano addosso lo stress scaricato da bimbi e genitori susseguitisi in quella specie di anticamera (necessaria e santa) dei tormenti.

Delle tre lettighe erano occupate due: una da un bambino di circa dieci anni e l’altra da mio figlio. Il bambino grandicello era visibilmente intimorito perchè consapevole di cosa accadeva. Invece mio figlio era per certi versi ignaro della situazione eppure nella parte più profonda del proprio essere credo percepisse di riflesso la gravità del nostro stato attraverso canali che noi adulti non riusciamo ad ostruire con le nostre menzogne. Menzogne costruite cercando di non spaventare i bimbi. Poi mio figlio, a caso voglio credere, formulava una serie di domande che in un qualche modo attenevano alla situazione. Inoltre, proprio in quel frangente, anteponeva alla domanda la frase:   “Quando sarò grande”. Questa affermazione mi scuoteva il cuore. Mi faceva scendere lacrime  asciutte sulla non guancia del mio viso derelitto. Non era un cattivo auspicio ma la consapevolezza che il futuro, in quel momento più che mai, è troppo incerto e diverso da quello che immaginiamo fatto di successi, di armonie, amore, benessere, salute…e qualche grattacapo. Io sarei stato contento di assistere al lento sgretolamento dei miei sogni sul futuro, invece nel giro di qualche giorno tutto diventò un deserto che franava in un oceano senza riva. E nella prostrazione la fatidica domanda: perchè proprio a me, alla mia famiglia, a mio figlio di tre anni? La risposta sarebbe semplicissima: perchè appartengo al genere umano e non ad una categoria esente da malattie, sciagure, disgrazie.

L’altro bimbo divagava proponendo ricordi alla madre. Mio figlio aveva preso a far roteare nell’aria un piccolo elicottero. Nel gioco era un eroe minacciato, pronto al combattimento, sicuro della vittoria. Nella reltà era proprio così. Un piccolo eroe: erano settimane che non mangiava quasi nulla, il suo viso era scarno con due occhiaie nere e livide, gli occhi però erano luminosi e sorridenti, se guardati da soli senza il contesto del volto, erano allegri. Nel panorama critico della situazione, questa era una nota positiva che mi dava forza, coraggio, mi rivollevava un po’.,

Poi davanti ai miei occhi e al mio esistere si innalzò un muro. Dopo mesi che eravamo vissuti uno accanto all’altro giorno e notte, venivo separato dal mio bambino. Capivo che il motivo del distacco poteva (e doveva) significare guarigione. Mi rendevo conto della necessità di quel distacco ma tutto succedeva così in fretta. Lo portavano via, lo strappavano alle mie cure, chinandomi, con le labbra sfiorai la sua manina che era tra le mie che si allentavano per non trattenerlo. Fu questo l’unico saluto, dolcissimo, struggente, intensissimo. Le porte che avevano ingoiato infermieri lettiga e mio figlio si chiusero ed io rimasi nel dolore tra i miei pensieri. Semplici pensieri perfino banali: quante cose avevo ancora da insegnare ai miei bambini…tutto. Avrei mai potuto farlo? A tutti e due? L’intera vita non basta a risolvere il rapporto padre-figlio, che cosa avevamo potuto fare io e il mio bambino in soli tre anni? Certo erano stati sufficienti a costruire montagne di sensazioni, castelli pieni di affetto ed enormi nuvole sempre in movimento, di gioia. Poi il pensiero si rivolgeva al secondo nato, piccino,bisognoso di  cure, di amore. E la sua venuta al mondo aveva rappresentato una sorta di riappacificazione tra noi e la natura, tra noi e gli dei…dopo quello che era accaduto.

Tra un pensiero e l’altro la mia mente e il mio cuore correvano da mio figlio su quel letto della sala operatoria, sotto quella luce intensissima e super tecnologica che doveva schiarire tutte le pieghe del male. Doveva illuminare il movimento infinitesimale, preciso dei chirurghi. Doveva rappresentare il nuovo sole che ci avrebbe consentito di tornare alla normalità. Noi quattro in armonia con il mondo. Noi quattro rafforzati nello spirito e nell’amore.

Era passato un quarto d’ora circa da quando ero rimasto solo, arrivò mia moglie trafelata: aveva lasciato il piccolino a delle nostre compagne di sventura. Nel Gaslini non era consentito a nessuno di entrare nelle corsie, solo i genitori. Cosi mia moglie si era decisa ad affidare il piccolino in mani altrui per poter seguire da vicino il suo bimbo in pericolo. Certamente avremmo voluto guidare le mani del chirurgo. Se esiste una energia sconosciuta che si trsmette mentalmente, noi di sicuro abbiamo coadiuvato l’equipe che operava.

Poi avevamo una incondizonata fiducia nel chirurgo che reputavamo un uomo particolarmente comunicativo, che sapeva infondere fiducia ed era inoltre a detta di tutti un professionista veramente ineguagliabile. Queste considerazioni però non bastavano  a bloccare le perplessità che si enucleavano nella mente. Le sensazione e le deduzioni si rincorrevano e si alternavano sia nel positivo che nel negativo per cui si pensava: un caso più grave di questo è stato risolto brillantemente. Ma subito come contrappeso: e se commettono un errore? La percentuale delle guarigioni e alta. E se trovano una situazione patologica più grave di quella evidenziata dalle indagini cliniche? Era un’alternanza di di pensieri che di tanto in tanto interrompevamo  con frasi che ci scambiavamo confrontando le considerazioni.

Erano trascorse diverse ore in una snervante, ineffabile attesa. Le parole, i pensieri  erano confluiti in un fiume di speranza, a volte l’argine sembrava cedere in qualche punto ma il pensiero immediatamente rinforzava, aggiustava la falla e non andava persa nemmeno una goccia di speranza.

Da un punto di vista più obbiettivo tutto il fermento che bolliva nella mente sfociava nella consapevolezza dell’impotenza nei confronti della sorte. Essere reattivi, concentrare le forze contro qualsivoglia sciagura aumenta le possibilità di vittoria. Se però la sorte nella sua incoscienza, nella sua casualità, determina un destino che conduce alle più estreme conseguenze, allora non c’è niente da fare. Si assiste, anzi si determina nella propria carne e dentro l’anima lo spettacolo più crudele che esista: il fato che mastica la nostra vita, il nostro essere, per poi sputarlo nel fango e calpestarlo ripetutamente.

Per fortuna l’animo umano e la mente, anche nelle situazioni più difficili e drammatiche, per una ragione credo, puramente biologica, si concedono dei momenti di calma e serenità. Come se venissero ignorate per alcuni lassi di tempo le pesanti situazioni che gravano sulle nostre vite, i problrmi scivolano in un’isola di oblio, regalando alle persone in pena, una corroborante seppur breve pausa. Proprio in una di queste provvidenziali parentesi di serenità sorpresi un raggio di sole che, insinuandosi da un’ampia finestra, si allungava lungo la parete e rischiarava parte del corridoio dove sedevamo in attesa. Il cattivo tempo aveva inesorabilmente colorato di grigio le ultime settimane. Forse da quel momento qualche giorno di sole avrebbe, tenuamente, regalato qualche sfumatura rosea al pallido incarnato di tanti bambini.

Mentre il sole giocava a nascondino sulla parete, le due porte in fondo si aprirono: apparve il chirurgo seguito da un assistente. Impazientemente io e mia moglie muovemmo verso i medici, cercammo subito lo sguardo del chirurgo, il quale senza sfuggire, a sua volta ci guardò entrambi e sorrise. Questo sorriso fu una delle cose più belle e promettenti che ci capitò in quel periodo. Il professore fece seuire al sorriso alcuni dettagli sull’intervento e sentì di rassicurarci.

Mia moglie tornò dal piccolino io seguii gli infermieri che spingevano la lettiga con mio figlio verso il reparto. L’effetto dell’anestesia durò a lungo, ma nella notte all’improvviso mio figlio scattò in piedi sul materasso con tutto l’armamentario di tubi, drenaggi, flebo. Rimasi turbato…non era un risvegliarsi normale, era qulcosa di più. Una reazione robusta e tenace, una ribellione quasi. In pochi attimi lo rimisi giù e cominciai a carezarlo affinchè si rilassasse.

Il decorso post-operatorio non presentò particolari problemi, solo una febbriciattola continua afflisse mio figlio per diversi giorni. Poi anche quella passò e venne il momento nel quale venimmo dimessi. Così ci ritrovammo nel lettone della nostra camera nel centro che ci aveva accolto, adiacente al Gaslini, per tutto il tempo. Era fine settembre e ricordo quella notte come fosse la notte di tutte le notti della mia vita. Tuoni e lampi squarciavano continuamente le tenebre. Gli elementi si scatenavano come in una forsennata lotta nella pioggia torrenziale. I figlioli erano nel mezzo, il piccolino verso la mamma col seno pronto e l’altro verso me. Io con un dito gli tappavo l’orecchio che non poggiava sul cuscino: quel frastuono di natura scatenata gli metteva paura. Ad essere sincero anche a me intimoriva un po’, ma non nel rumore di per se o nei guizzi elettrici dei fulmini. Era una sorta di spavento più ancestrale, fatto di simboli atavici. Avevo sentore che quella furia ci riguardasse. Sembrava che la natura fosse arrabbiata con noi quattro perchè avevamo  cambiato lottando il naturale corso delle cose. Questa sembra una sensazione dettata da pensieri sciocchi e forse potrebbe esserlo ma in quel momento si ergeva nel mio essere con un despota incontrastato dentro un’aura di fortissime simbologie. In qualche modo sentivo che la forza dell’amore, dell’attaccamento tra genitori e figli avesse prodotto il miracolo, ma pur avendolo  concesso le forze della natura nella tempesta volevano ammonire noi piccoli uomini di stare attenti e non cantare vittoria.

Passati ancora alcuni giorni, effettuati gli ultimi controlli, ci trovammo in macchina per ritornare a casa nostra. Sembravamo i superstiti di un naufragio. Arrivati alla sbarra dell’autostrada, avevamo già salutato in cuor nostro Genova città che ci aveva accolti e unti con il balsamo celeste della fortuna. La sbarra però non voleva saperne di sollevarsi, si era in qualche modo bloccata. Non si alzava. All’improvviso poi in seguito ad una serie di piccoli sussulti andò in posizione verticale. Mio figlio che aveva seguito questo piccolo incidente con curiosità, al momento di passare rivolto alla sbarra o forse alla città esclamò: “Arrivederci e grazie”. Scoppiammo a ridere tutt’e quattro. Si anche il piccolino partecipò senza aver compreso il perchè della risata.

Ormai eravamo a metà strada, la nostra casa ci aspettava per altre fasi della vita. Dall’autostrada vedemmo un enorme arcobaleno, completo, nel senso che toccava terra da un lato e dall’altro. Non avevo mai visto nulla di simile. Come dopo il diluvio anche a noi sembrò di aver individuato il segno della pace della riconciliazione. Penso che quell’enorme arco colorato si capovolse nel nostro cuore assumendo l’aspetto di un gigantesco sorriso. Sì il cuore sorrideva di un sorriso tutto colorato.

Nunzio Dell’Annunziata