Home Argomenti Economia I “Costruttori”. L’ eredità di Olivetti e della Olivetti

I “Costruttori”. L’ eredità di Olivetti e della Olivetti

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Uno spazio dedicato ai “costruttori” una categoria speciale, rara, che è stata presente nella storia d’Italia. Un pezzo della storia d’Italia. Un pezzo della storia dell’imprenditoria italiana. Un pezzo del tentativo di costruire un paese diverso. Questa è stata l’Olivetti e la sua storia. Basta leggere di seguito chi ci ha lavorato direttamente o indirettamente. Ci riferiamo, in particolare nel periodo in cui fu guidata da Adriano Olivetti, tra il 1930 ed il 1960,   di cui torneremo a parlare. Ora pubblichiamo un articolo che parla dell’eredità di quell’azienda e del periodo più felice. (g.f)

“Un’impresa che voleva produrre non soltanto profitti, ma cultura e ideologia. Vi lavorarono grandi intellettuali, alcuni dei quali sono ancora attivi nella societa’ italiana.

Olivetti. Quel che resta del sogno? Ferrarotti: “Ivrea ci lascio’ la voglia di utopia politica” Giorgio Soavi: “Ci insegno’ a spaziare oltre le nostre competenze specifiche” Lunati: “Ho imparato da Adriano a privilegiare sempre la creativita” Sono esistiti davvero gli “olivettiani”? Furono una categoria intellettuale o Ivrea fu soltanto un buon stipendio in tempi grami per la cultura? Erano consapevoli o no di partecipare a un grande progetto politico – culturale? E dopo che il sogno fini’ con la morte di Adriano Olivetti (un infarto nel 1960, a 59 anni), portarono con se’ l’impronta olivettiana nel lavoro, nelle arti, nei luoghi di comando? O tutto sfumo’ nella memoria personale?

Tali domande si sono rincorse in questi giorni, quando l’avventura industriale, culturale e politica di Adriano Olivetti e’ ritornata sui mass media in occasione dei novant’anni dalla nascita della fabbrica di Ivrea, tra convegni, mostre di design, spettacoli, riapertura di archivi e la rinascita delle Edizioni di Comunita’ in casa Einaudi. Nelle celebrazioni ricorre la parola “utopia” per definire sia l’esperienza unica di un’azienda che anteponeva l’uomo al profitto (ma con ottimi risultati economici), sia il modello sociale ispirato a personalismo cristiano e socialismo umanitario, delineato nel “libretto rosso” di Olivetti, “Ordine politico delle comunita”, che fu anche la base di un’avventura elettorale. Relazioni aziendali inimmaginabili per i tempi, salari piu’ elevati, sabato libero, bilioteche, asili, colonie: le idee sociali di Olivetti si realizzarono in fabbrica mentre quelle politiche, fondate sul decentramento (lo Stato come federazione di piccole comunita’, rapporto diretto fra eletti ed elettori) e sull’autogestione, affiorarono soltanto a Ivrea e nei comuni del Canavese governati dal movimento di Comunita’.

Cio’ che rese ancora piu’ speciale l’esperienza di Ivrea fu l’idea di fabbrica come centro propulsore di cultura. Olivetti si circondo’ di ogni genere d’intellettuali: alcuni lavoravano alla rivista e alle Edizioni di Comunita’, altri gravitavano attorno al Movimento, altri ancora operavano direttamente in fabbrica. Fra i letterati, Paolo Volponi, che parti’ dai servizi sociali per giungere ai vertici dell’azienda, Franco Fortini, il copyrighter che battezzo’ la “Lettera 22”, Geno Pampaloni, cattolico ed ex azionista, che fu capo dell’ufficio di presidenza, Leonardo Sinisgalli (che invento’ il poster con la rosa infilata nel calamaio, per dire “questo non ti serve piu”), e poi Luciano Foa, Ottiero Ottieri, Giorgio Soavi, Giovanni Giudici, Libero Bigiaretti. Ancora, urbanisti come Astengo, architetti – designer come Nizzoli, Bellini, Sottsass, Zanuso; economisti come Franco Momigliano e Gian Antonio Brioschi, sociologi come Franco Ferrarotti, Luciano Gallino, Roberto Guiducci, manager come Franco Tato’ (ora presidente dell’Enel) e Guido Rossi (ex presidente della Consob), Giancarlo Lunati (ora presidente del Touring) e Renzo Zorzi (ora segretario della Fondazione Cini), che dirigeva le relazioni culturali promuovendo mostre ed eventi. L’elenco e’ piu’ che parziale, tanto affollata fu Ivrea di spiriti fuori dall’ordinario: citiamo solo Le Corbusier, consulente per ristrutturare gli edifici e, a capo della psicologia di fabbrica, Cesare Musatti.

Ma gli “olivettiani” si sentivano davvero tali? Furono una famiglia intellettuale o solo i dipendenti fortunati di un padrone illuminato? Che cosa e’ rimasto di quella stagione? Franco Ferrarotti, padre della nuova sociologia italiana, che fu accanto a Olivetti nelle elezioni del ’59 e occupo’ l’unico seggio conquistato da Comunita’ dopo le dimissioni di Adriano, e’ perplesso: “Pochi erano consapevoli del progetto nel suo complesso. I piu’ si accorgevano di vivere un grande disegno di trasformazione umana, sociale e politica, solo per lo spicchio di loro competenza: era consapevolezza settoriale, propria dei tecnici ben inseriti nell’azienda. Fra gli stessi dirigenti molti erano i delusi dalla politica, per esempio ex azionisti, i quali non si rendevano conto che a lui importavano le conseguenze politiche di quella filosofia industriale piu’ che fare il buon padrone o il mecenate. La ditta era un laboratorio per le idee maturate sui testi di Meunier, Peguy o Simone Weil, che non potevano certo fermarsi ai cancelli di Ivrea. Fra i letterati, talora, notavo imbarazzo: alcuni avevano gia’ fatto le proprie scelte, anche di partito, e temevano che la loro presenza fosse interpretata come rapporto clientelare”.

Ma dopo, e’ rimasta un’impronta fra chi ha vissuto, piu’ o meno consapevole, il Grande Progetto? “Olivetti e’ riuscito a trasmettere quel rispetto per le idee – risponde Ferrarotti – che gli permise di tenere insieme spiriti tanto diversi. Poi trasmise a questo gruppo, per lo piu’ di origine provinciale, il gusto per l’azione culturale dell’impresa, che credo sia rimasto vivo per esempio in Massimo Fichera alla Rai o in Lunati al Touring Club. Infine, lascio’ in eredita’ l’idea che la cosa utile dev’essere anche bella, un ideale estetico che poteva diventare progetto politico: dall’oggetto alle citta”.

Per Giorgio Soavi, che opero’ proprio in campo estetico, facendo prima il talent scout (porto’ a Ivrea Sottsass, Gae Aulenti, grafici e artisti) e poi l’art director, gli “olivettiani” hanno “ereditato l’idea che la cultura non riguarda solo il tuo angolino, ma e’ immensamente piu’ ampia: una visione quadrangolare che ti permette di compiere scelte che vadano oltre la tua competenza specifica”. E’ l’umanesimo che infrange il muro degli specialismi: negli anni di Ivrea, ricorda Soavi, “i piu’ erano consapevoli di vivere una rivoluzione culturale. Non cosi’ quelli come Fortini, che detestava qualunque padrone: lui e Bigiaretti rispettavano Adriano ma non lo digerivano. In molti non lo capivano, ma tutti avevamo l’impressione di essere un’elite e che all’estero guardavano a noi. Insomma, l’esilio dorato di Ivrea era una strana novita’ che aveva dato a tutti una seggiolina sociale, anche se la domenica molti andavano a Torino, presso un altro clan, quello di Einaudi, dove Olivetti era visto come temerario, visionario o peggio”.

Proprio l'”estrema tolleranza di Olivetti verso ogni discorso politico diverso” e’, per Giovanni Giudici, l’impronta rimasta dagli anni di Ivrea, dove “la pluralita’ di idee era naturale e accettata”. Il poeta, che lavoro’ nella casa editrice e al giornale di fabbrica, e’ convinto che i piu’ fossero consapevoli di partecipare a un’impresa fuori dall’ordinario. “Certamente, di quel sogno era consapevole Paolo Volponi, quando dirigeva i servizi sociali, asili, scuole, colonie: chi li aveva mai visti, allora, in altre fabbriche? Cosi’ come Franco Momigliano, incaricato della pianificazione aziendale, non poteva non rendersi conto di lavorare in una ditta dalle finalita’ etiche e sociali. Certo, c’era l’olivettiano che non ci credeva e trovo’ a Ivrea solo da sopravvivere. Nell’Italia delle ingiustizie, pero’, Olivetti ci faceva sentire un pochino piu’ eguali degli altri. Di fronte alla scelta politica, io fui agnostico, ma i piu’, se non altro perche’ respiravano quell’aria, lavorarono anche nel Movimento. Parlo di Ferrarotti, Pampaloni, Fichera, Lunati e altri”.

Lo stesso Giancarlo Lunati, che fu capo del personale e consigliere d’amministrazione, autore di saggi e anche di romanzi, e’ convinto che quell’eredita’ sia presente negli olivettiani che hanno conservato spirito creativo. “Nella scelta delle persone – spiega – Adriano privilegiava la fantasia e l’intelligenza. Le sue curiosita’ erano contagiose, e di tale contagio gli intellettuali ben integrati nell’azienda hanno beneficiato per sempre (altri, come Fortini, pur godendo della vicinanza di Adriano, sono rimasti un corpo estraneo). Ci ha insegnato a valorizzare la pasta umana: cosi’, di fronte a un nuovo progetto, io prima mi chiedo chi sia l’uomo che lo porta avanti. E quell’uomo deve avere un surplus che gli consenta di spaziare oltre la sua competenza. Olivetti cercava sempre uomini in grado di fare cose nuove: gli importava solo del futuro, poco del passato, ancora meno della storia”.

Quella di Ivrea, dunque, non fu una vera e propria famiglia, anche perche’ si dissolse con la sparizione del padre. Poi fu la diaspora. Chi voglia oggi cercare i cosiddetti olivettiani, non trovera’ epigoni del movimento Comunita’, ma dovra’ frugare tra la classe dirigente italiana finche’ non incontri uomini dal Dna tutto speciale. Con l’elica modellata ad Ivrea, e ostinatamente proiettata nel futuro.

di CESARE MEDAIL