In questi giorni la “Terza Pagina” del Corriere Pievese non può non essere dedicata al terribile sisma che ha colpito a distanza di tre mesi il Centro Italia, più volte e pesantemente negli ultimi giorni, in particolare una delle zone più ricche di patrimonio storico e artistico dell’Umbria e delle Marche. Ora è il tempo della solidarietà, degli interventi di urgenza e di emergenza dato anche l’approssimarsi della stagione più fredda. E’ il tempo dei soccorsi e dell’ospitalità. Poi però quanto prima dovrà venire anche il tempo della riflessione, anche autocritica, aggiornata e lungimirante sul che fare. Noi abbiamo scelto di offrire ai nostri lettori due spunti interessanti per questa riflessione. Due interventi apparsi in questi giorni sulla stampa. Marc Augé che ci ricorda che intervenire a tutela e a ricostruire questa area di cui anche noi, anche se più marginalmente rispetto alla zona appenninica, facciamo parte, significa intervenire nel “cuore della civiltà europea”. Stella nel Corriere della Sera pensa alla risorse necessarie per mettere in sicurezza il nostro paese, tutto a rischio sismico. Ed allora pensa anche alla necessità di un grande piano che duri per decenni e che veda impegnati concordemente gli italiani al di là delle divisioni contingenti. (N.d.R)
Da La Repubblica. Un tesoro dell’Europa. Marc Augé: “Difendiamo quei borghi medievali, lì è nata l’identità occidentale”
I borghi dell’Italia centrale sono “luoghi dell’identità, non solo cristiana, dell’Occidente “. Per questo salvaguardarli “è particolarmente importante oggi, quando la Brexit costringe l’Europa a guardarsi allo specchio e a realizzare un piano per ricostruire la sua fisionomia politica e culturale”. Di fronte alle macerie del cuore dell’Italia l’antropologo francese Marc Augé riflette sul significato della salvaguardia della memoria.
Professor Augé, qual è l’importanza dei luoghi nella costruzione dell’identità dell’Europa?
“Quando l’antica Roma sconfisse Cartagine, i suoi generali rasero al suolo la città e sparsero sale sulle rovine perché in quel luogo non crescesse più nemmeno l’erba”.
Ti riduco in macerie per cancellarti dalla storia?
“Esattamente. E quell’illusione è diventata un mito per chiunque in seguito volesse cancellare l’identità di un popolo. Durante l’occupazione tedesca della Francia un radiocronista collaborazionista diceva che il suo sogno era quello di far fare all’Inghiterra la fine di Cartagine”.
Per contrasto difendere l’integrità di un luogo significa salvare la memoria?
“Non automaticamente ma è un passo importante”.
Salvare i borghi dell’Italia centrale per salvare l’identità culturale dell’Europa?
“Non credo che sia solo questo. Certamente il monachesimno ha avuto un ruolo importante nella storia cristiana europea. Ma quel che è in discussione è, più in generale, il dna dell’intero Occidente. Le figure dell’Italia centrale che hanno fatto la storia del cristianesimo tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio sono riuscite a segnare in profondità i caratteri di quella che noi chiamiamo cultura occidentale”.
Il terremoto ha abbattuto case, chiese e dunque pezzi di memoria. Come ricostruire?
“Voglio ancora dire qualcosa sul perché ricostruire. Questo terremoto infatti è arrivato in un momento molto delicato in cui l’Europa sta ricostruendo se stessa”.
L’impressione è piuttosto che si stia lentamente disfacendo…
“Certamente la Brexit è stato un segnale di rottura dell’identità. Ma proprio per questo può servire all’Europa per guardarsi allo specchio e decidere di ripartire. Nel momento in cui lo specchio del referendum inglese fa emergere tutti i dubbi e tutte le differenze tra i popoli europei, bene, in questo passaggio sta la delicatezza della fase che attraversiamo. Salvare i borghi dell’Italia centrale significa difendere un pezzo del puzzle della nostra storia continentale”.
Se lei dovesse disegnare la mappa dei punti di riferimento dell’identità europea, quali città, quali luoghi segnerebbe sulla cartina?
“Molti luoghi naturalmente. Ma credo che il triangolo di riferimento sia quello che ha come vertici Parigi, Roma e Berlino. Poi naturalmente ci sono i Paesi Bassi. In fondo, se ci pensiamo, quella mappa corrisponde abbastanza a quella degli stati fondatori dell’Unione Europea”.
Per quale motivo allora quel disegno di integrazione è andato in crisi? Perché quell’identità è in discussione?
“Perché, a mio avviso, si è proceduto con troppa fretta all’allargamento dell’Unione. Credo che per riuscire a far risorgere l’identità dell’Europa sarà inevitabile immaginare di tornare a un nucleo centrale, quello delle nazioni fondatrici, e a un secondo gruppo di Paesi che hanno vincoli meno stretti”.
L’opera di Benedetto da Norcia, santo protettore dell’Europa, ebbe il pregio di offrire un punto di riferimento in un mondo che aveva frantumato la sua unità. Siamo tornati a quel punto?
“L’identità dell’Europa è sempre stata nella sua capacità di valorizzare le sue differenze. Questo è quel che dovremmo riuscire a fare anche oggi per ripartire”.
Anche nel momento in cui l’immigrazione porta in Europa identità e culture diverse da quella dell’Occidente?
“Soprattutto per questo motivo. Senza imparare a riconoscere la nostra identità, anzi le nostre diverse identità, non potremo dialogare con le altre. E, oltre all’identità legata alla storia del Cristianesimo, esiste l’identità laica, nata con la Rivoluzione francese e diffusa in Europa dall’esercito napoleonico. A mio parere la laicità è uno dei punti essenziali del dna dell’Occidente. Dovremmo saperla valorizzare”.
Ricostruire Norcia e gli altri borghi distrutti dal terremoto. Ma come? Non c’è il rischio di trasformarli in musei senza vita?
“Non penso. Certo bisogna fare attenzione ad evitare questo esito. Dobbiamo sapere che l’opera dell’uomo e anche gli eventi naturali fanno parte della storia. Nulla resta esattamente com’era. Il Foro romano è la testimonianza di questo. L’uomo e la natura, gli stessi terremoti, agendo nei secoli ci hanno restituito solo una testimonianza di ciò che fu. Ma quella testimonianza, l’aver saputo salvare quel luogo, è stato decisivo per salvaguardare la memoria della civilizzazione romana. Non sarebbe stato lo stesso se di quell’antica piazza non fosse rimasto nulla”.
Lei è stato il primo a denunciare il diffondersi dei non-luoghi nelle nostre città, posti, come i centri commerciali, uguali in qualsiasi punto dell’Occidente. La ricostruzione dei borghi antichi può essere l’antidoto?
“Certamente è un antidoto. È una delle strade per evitare l’omologazione, per rivendicare le differenze come una radice costitutiva dell’Europa. Credo che questo sia essenziale”.
Insomma non rischieremo di trovare un giorno un centro commerciale al posto di un’antica basilica?
“Non credo proprio che ci sia questo pericolo. Spero che saremo abbastanza saggi per evitarlo”.
Dal Corriere della Sera di Gian Antonio Stella “Serve un grande patto per salvare il paese”
E rischia di non essere ancora finita. Certo, siamo tutti appesi alla speranza che questo grappolo di terremoti che da mesi devasta l’Appennino abbia finalmente fine. La storia dice che prima o poi dovranno ben esaurirsi, questi scossoni che spezzano la spina dorsale dell’Italia seminando lutti e annientando quei bellissimi borghi antichi che sono la nostra anima. Ultimi fra i tanti Ussita, Castelluccio, Norcia. Dove la basilica di San Benedetto è crollata in una nuvola di polvere. Un popolo serio e uno Stato all’altezza, però, devono aver chiaro che forse non è finita. E che è del tutto inutile fare gli scongiuri. Occorrono progetti, visioni, scadenze. Quella stessa storia millenaria della nostra terra che ci incoraggia a confidare nella fine dell’incubo ci ricorda infatti che è già successo. L’abbiamo rimosso, ma è già successo. Più volte. Non solo dal 1315 gli Appennini sono stati sconvolti da 149 scosse superiori a 5.5 gradi della scala Richter e quasi tutte con danni gravissimi.
Ma, spiega la storica Emanuela Guidoboni, «cluster» di terremoti simili a quello attuale sono stati registrati lungo la schiena della penisola almeno cinque volte: nel 1349, 1456, 1638,1703 e 1783. Di più: nelle aree a elevato rischio sismico, che valgono il 50% circa del territorio e il 38% dei comuni, ci sono 6 milioni e 267 mila edifici. Molti bellissimi e costruiti secoli fa, altri decorosi tirati su più recentemente, altri ancora orrendi e ammassati senza alcuna attenzione ai problemi del territorio negli ultimi settant’anni. Ci vivono, complessivamente, 24 milioni e 147 mila persone. Non consapevoli, per usare un eufemismo, dei pericoli che corrono. Dice tutto una ricerca del 2012 di Cresme, Ance e Consiglio nazionale degli architetti: un quarto degli edifici è in condizione mediocre o pessima. «Sebbene la normativa antisismica per le costruzioni abbia più di trent’anni, solo una minima parte degli edifici realizzati in questo periodo nelle attuali zone ad elevato rischio è stata costruita secondo criteri antisismici». Eppure il 45 per cento delle persone, pur sapendo di vivere in aree a rischio, «ritiene che la sua abitazione sia costruita con criteri antisismici». Anzi, una su tré pensa che basti risanare le strutture ogni 40 anni o 60. Per non dire di chi ritiene bastare una ristrutturazione al secolo. Gechi. Per salvare il nostro patrimonio abitativo, storico, monumentale, scolastico e salvare chi ci vive dentro non basta dunque accorrere in soccorso alle popolazioni ogni volta che c’è una calamità. Calamità sismiche o idrogeologiche che, tra parentesi, son costate dal 1944 al 2009, secondo le stime, da 176 a 213 miliardi. Una cifra mostruosa destinata a crescere. Non basta. Occorre un patto nazionale all’altezza dell’emergenza. Dirà Matteo Renzi: c’è già, Casa Italia. Nel nome e negli obiettivi, può darsi. Di fatto, però, manca il cemento fondamentale per cominciare a restituire agli italiani, che già avevano il morale basso e oggi sono ancora più scossi, quella speranza di poter vivere nei loro centri storici risanati e sicuri. Il cemento di una solidarietà nazionale che vada oltre il mesto bla-bla di circostanza. Lo sappiamo: è impensabile che questi rissosissimi partiti, con l’aria che tira, trovino un accordo su un ogni altra cosa. Almeno su un grande patto di salvezza nazionale, magari sottratto a partiti e maggioranze e fazioni e delegato a un’agenzia messa su da tutti che si occupi «solo» di questo, però, è doveroso pretendere una svolta. Radicale.
Quanti altri terremoti o alluvioni devono colpirci perché la politica abbia uno scatto di orgoglio e di decenza all’altezza di quanto i volontari quotidianamente fanno senza badare alle tessere? E insieme, finalmente, dovrà partire una grande offensiva culturale nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nella società, che diffonda fra gli italiani la coscienza dei rischi che corrono. E di quanto tocchi anche a loro, e non solo genericamente «allo Stato», il dovere (il dovere: non la facoltà) di farsi carico della loro parte di responsabilità. Nè i cittadini possono aspettarsi che le casse pubbliche siano in grado di farsi carico di ricostruire tutto a spese della collettività: non possono farcela. E sarebbe ora che si cominciasse a prendere in esame (con cautela e buon senso, ovvio) quell’assicurazione obbligatoria contro le catastrofi che già è prevista in tanti paesi, dal Belgio alla Francia, dalla Norvegia alla Spagna o alla Romania. Ce l’ha, questo Paese, la forza e l’ambizione per prendere di petto i problemi epocali posti dagli eventi di queste settimane? Di avviare davvero, con regole nette e meno burocrazia, il risanamento del nostro territorio e dei nostri scrigni storici? Noi pensiamo di si. Ma lo sforzo deve essere corale. È una sfida troppo seria per smarrirsi in guerricciole di bottega…
*la foto di copertina è tratta dalla pagina fb di Anna Ascani