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Ma chi erano mai questi Etruschi ? Seconda parte

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Con questa seconda parte terminiamo di pubblicare il contenuto della voce “Etruschi” su Wikipedia. Nella prima parte abbiamo riportato la parte che ha riassunto l’evoluzione storica del popolo etrusco in Italia e nel rapporto con la nascente potenza di Roma, in questa seconda parte invece si parla dell’influsso che questo straordinario popolo ha avuto con la cultura e la storia successiva del nostro paese. L”‘eredità” appunto.(N.d.R)

 

Eredità

I Romani si avvalsero della cultura etrusca soprattutto per gli aruspici, i sacerdoti capaci di interpretare il destino attraverso la lettura delle viscere degli animali, del volo degli uccelli, e dei fulmini. Inoltre i maestri degli alunni romani furono etruschi e greci, considerati i più colti.

giochi gladiatori, l’arco, l’uso dell’arco trionfale, alcuni simboli religiosi come il pastorale (ancora oggi usato dalle chiese cristiane), il culto della Triade Capitolina, il simbolo del fascio littorio, iltempio tradizionale romano, lo stile architettonico detto tuscanico sono solo alcuni esempi di contributi della civiltà etrusca a quella romana. Lo facciamo mettendo in copertina una delle tangibili eredità situate nella vicina Chiusi.

Società

Le città-stato etrusche

Gli Etruschi erano organizzati in città-stato e si riconoscevano in una federazione di 12 popoli, che secondo la tradizione tramandataci da Strabone, nacque fin dal fondatore Tirreno.[2]Corrispondeva agli insediamenti di dodici città: Caisra (Cerveteri), Clevsi (Chiusi), Tarchuna (Tarquinia), Vei(s) (Veio), Velch (Vulci), Vetluna (Vetulonia), Pupluna (Populonia), Velathri(Volterra), Velzna (Orvieto), Curtun (Cortona), Perusna (Perugia), Aritim (Arezzo).

I primi villaggi etruschi erano costruiti da capanne a pianta quadrata, rettangolare o tonda con un tetto molto spiovente (generalmente in paglia o argilla). Le città etrusche si differenziavano dagli altri insediamenti italici perché non erano disposte a caso, ma seguivano una logica economica o strategica ben precisa. Ad esempio, alcune città erano poste in cima a delle alture, cosa che rendeva possibile il controllo di vaste aree sottostanti, sia terrestri che marittime. Altre città, come Veio e Tarquinia, sorgono in un territorio particolarmente fertile e adatto all’agricoltura.

La città etrusca veniva fondata dapprima tracciando con un aratro due assi principali fra loro perpendicolari, detti cardo (nord-sud) e decumano (est-ovest), in seguito dividendo i quattro settori così ottenuti in insulae (dal latino, isole), tramite un reticolo di strade parallele al cardo e al decumano. Questa precisa disposizione urbanistica è visibile ancora oggi in alcune città dell’antica Etruria, corrispondente grossomodo all’attuale Toscana, Umbria e parte del Lazio. L’idea di fondare le città partendo da due strade perpendicolari rappresenta un primato degli etruschi rispetto ai greci, anticipando di quasi due secoli gli interventi di Ippodamo di Mileto. Successivamente questo sviluppo urbano venne ripreso in epoche successive anche dai Romani per fondare accampamenti e città (come ad esempio Augusta Praetoria e Augusta Taurinorum, le attuali Aosta e Torino).

Le città sono spesso cinte da mura, molto spesso ciclopiche. I materiali usati erano l’argilla, il tufo e la pietra calcarea; il marmo invece era pressoché sconosciuto. L’ingresso alla città avviene attraverso le porte, che erano solitamente sette o quattro (ma si hanno testimonianze di alcune città a cinque e sei entrate), le più importanti in corrispondenza delle estremità del cardo e del decumano. Inizialmente erano delle semplici architravi, ma a partire dal V secolo a.C. le porte assunsero caratteristiche imponenti a forma di arco, costruite incastrando a secco tra loro enormi blocchi di tufo, a loro volta inseriti nelle mura. Le porte di epoca tardo-etrusca, come ad esempio la Porta all’Arco di Volterra, erano inoltre decorate con fregi e bassorilievi nelle loro parti principali (la chiave di volta e il piano d’imposta).

Gli eserciti e l’organizzazione militare

Considerata la loro organizzazione federale di città-stato, in caso di guerra gli eserciti erano reclutati su base cittadina e richiamando alle armi i cittadini secondo ricchezza e posizione sociale: di conseguenza composizione, equipaggiamento e aspetto degli eserciti doveva quindi variare molto. Le formazioni armate comprendevano corpi di opliti, di truppe leggere e di cavalleria, ognuno con i propri equipaggiamenti e con i propri compiti.

Abitazioni etrusche

Le prime case degli Etruschi erano fatte in legno e fango; non ci sono quindi molti resti delle loro città di epoca villanoviana ed orientalizzante. La maggior parte delle informazioni su questo popolo deriva dalle tombe, costruite in pietra: esse contenevano molti oggetti e spesso sulle loro pareti erano dipinte scene di vita quotidiana. Questi reperti ci dicono che la civiltà etrusca era ricca e raffinata.

Le abitazioni erano generalmente a pianta rettangolare, ripartite in più vani da muri portanti che poggiavano su fondazioni a secco in tufo, alberese o galestro a seconda delle disponibilità locali. I pavimenti erano generalmente in terra battuta e le murature a graticcio o in mattoni, con travi e pilastri portanti in legno. I tetti, a loro volta sostenuti da travi lingee, erano ricoperti da tegole in terracotta; in alternativa era praticata la tecnica del pisè, pressando argilla all’interno di casseri; tali muri erano più robusti e potevano essere portanti senza bisogno di aggiungere travi e pilastri.

Nel corso del periodo arcaico si assiste alla nascita di fondazioni abitative più stabili, che hanno lasciato evidente traccia di sé nelle città di Kainua a Marzabotto e a Gonfienti a Prato. Si tratta di edifici a pianta centrale, strutturati attorno ad un portico aperto con impluvium ed ambienti che spesso sul lato della strada principale venivano destinati a fondaci o attività commerciali. Il modello su cui esse si strutturavano era quello ad oggi definito come “domus pompeiana“, non solo nella sua dislocazione ma anche nel suo effettivo funzionamento: le acque piovane venivano convogliate verso un pozzo nel cortile centrale o attraverso canalette alle zone esterne all’edificio. I tetti erano realizzati con tegole e coppi, in maniera molto simile a come si può trovare attualmente in Toscana, ed erano dipinti e decorati da maschere con motivi “a palmetta” ed antefisse. Sulla sommità venivano anche poste statue. Un gruppo di edifici arcaici che ha restituito simile decorazione architettonica è visibile in località Poggio Civitate (Murlo) e risale alla metà del VII secolo a.C.: in esso possiamo notare un lunghissimo fregio in terracotta e sculture acroteriali di alto pregio.

Stazioni termali

Castelnuovo di Val di Cecina (località Il Bagno), al centro di un territorio ricco di sorgenti naturali normalmente sfruttato per la geotermia, è stato costruito dagli Etruschi, nell’epoca tardo-ellenica, il complesso di Sasso Pisano, che rappresenta l’unico esempio di terme etrusche giunte fino a noi.

Alla fase più antica (III secolo a.C.) risalgono i resti di un portico quadrangolare costituito da grandi blocchi regolari di calcare del posto e, un secolo dopo, vennero aggiunti due impianti termali ricoperti da un tetto in tegole. C’erano anche alcuni vani quadrangolari, forse destinati ai visitatori.

Molto importante è anche il sistema idraulico, costruito per sfruttare l’acqua calda delle sorgenti vicine: avevano costruito dei piccoli canali per condurre l’acqua calda alle vasche e per alimentare la fontana aperta che era posta di lato.

Abbandonato per quasi un secolo per i danni provocati da un terremoto dopo il 50 a.C., il complesso, in parte ristrutturato, rimase in uso fino alla fine del III secolo d.C., come confermano le 64 monete di bronzo di quell’epoca, recuperate in una delle vasche.

Il bollo con l’iscrizione etrusca SPURAL (letteralmente “della città”) HUFLUNAS rinvenuto sulle tegole del tetto dovrebbe testimoniare la destinazione pubblica delle terme: il complesso è forse da identificare con le AQUAE VOLATERRAE o le AQUAE POPULONIAE rappresentate nella TABULA PEUTINGERIANA, copia del Medioevo di una carta dell’età romana conservata presso la Biblioteca Nazionale di Vienna.

È attualmente in corso un progetto rivolto alla costruzione, nell’area di ritrovamento, di un parco archeologico aperto ai visitatori, ai pellegrini e ai turisti.

Il ruolo della donna

La donna nella società etrusca, diversamente dalla donna greca e in parte anche dalla donna romana, non si occupava solo delle attività domestiche.

La rilevanza sociale della donna etrusca trova significative conferme nella documentazione archeologica e nelle storiografia latina e greca.

Nelle iscrizioni, la donna etrusca, al pari dell’uomo, appare fornita di formula onomastica bimembre – nome individuale o prenome + nome di famiglia o gentilizio – a partire dal VII secolo a.C.(ad esempio su di un’olla di bucchero da Montalto di Castro, della fine del VII secolo a.C. si legge “mi ramunthas kansinaia” = “io (sono) di Ramuntha Kansinai”, mentre su un vaso da Capuadel V secolo a.C. si trova scritto “mi culixna v(e)lthura(s) venelus” = “io (sono) il vaso di Velthura Venel”). Come noto le donne romane erano invece individuate col solo nome gentilizio.

Nell’epigrafia etrusca, inoltre, relativamente ai figli, si registra accanto alla menzione del patronimico, anche quella del matronimico (ad esempio a Tarquinia sul sarcofago della Tomba dei Partunu, datata al III secolo a.C., si legge “Velthur, Larisal clan, Cucinial Thanxvilus, lupu aviils XXV” = “Velthur, di Laris figlio, (e) di Cuclnei Thanchvil, morto di anni 25”). Questa tradizione viene mantenuta in terra d’Etruria anche durante la prima età imperiale, come attestato da numerose iscrizioni latine (prevalentemente a ChiusiPerugia e Volsinii).

La donna, inoltre, continuava a portare il proprio patronimico o il proprio nome anche da sposata (ad es. su di un sarcofago da Tarquinia del V-I secolo a.C. si legge “Larthi Spantui, figlia di Larc Spantu, moglie di Arnth Partunu”). Per quanto si desume dalle iscrizioni di possesso su oggetti (vasi anche da simposio, statuette, fibule, ex voto) la donna, fin dal periodo orientalizzante, risulta, al pari dell’uomo, titolare di diritti reali: in qualche caso la donna risulta destinataria del dono (su un vaso del VI secolo a.C. si legge “mi(ni) aranth ramuthasi vestiricinala muluvanice” = “mi donò Aranth a Ramutha Vestiricinai”), in altri è la donna stessa a disporre di un proprio bene (ad es. su una fibula d’oro del 650 a.C. si legge “mi velarunas atia” = “io (sono) della madre di Velaruna”).

Le iscrizioni di possesso femminile su oggetti d’uso, sotto un diverso profilo, dimostrano come la donna, nei ceti alfabetizzati (aristocratici, ma anche scribi e vasai), sapeva leggere e scrivere. La donna etrusca risulta titolare di tombe, sarcofagi e urne, così come mostrato dalle relative iscrizioni femminili o da coperchi di sarcofagi e urne con rappresentazione di recumbenti femminili. Si segnala inoltre il rinvenimento, in non pochi casi, di corredi pertinenti a deposizioni femminili di particolare rilevanza quantitativa e qualitativa (ad es. i corredi di “Culni” della Tomba dei Vasi Greci di Caere databile alla fine del VI secolo o all’inizio del V secolo a.C. e di “Larthia” della Tomba Regolini Galassi di Caere del 650 a.C.): l’importanza del corredo attesta chiaramente il prestigio sociale e la ricchezza della defunta.

Si ritiene che la donna fosse anche titolare di attività economiche: alcune iscrizioni arcaiche (“Kusnailise” su ceramica e “Mi cusul puiunal” su tegola di prima fase) ed ellenistiche (dei bolli volsiniesi con l’iscrizione “Vel numnal”) sono da interpretare come firma della proprietaria della bottega. Dall’attribuzione da parte di Tito Livio (Storie, I, 34 e 39) a Tanaquilla (moglie del re etrusco di Roma Tarquinio Prisco) di capacità divinatorie («esperta qual era, come lo sono di solito gli etruschi, nell’interpretazione dei celesti prodigi») si desume che anche le donne dell’aristocrazia potevano interpretare i segni degli dèi.

La possibile esistenza di classi di sacerdotesse in Etruria è stata sostenuta da Massimo Pallottino (Studi Etruschi 3, 1929, p. 532) con riferimento al termine “hatrencu” (ad es. “Murai Sethra hatrencu” = “Sethra Murai, la sacerdotessa” su parete della Tomba delle Iscrizioni di Vulci del III-I secolo a.C.) e da Mauro Cristofani (Studi Etruschi 35, 1980 p. 681) con riferimento a “tameru”. Che la donna potesse avere un ruolo anche in certe pratiche religiose è possibile ipotizzarlo attraverso l’analisi di alcuni sarcofagi, come quello di Londra al British Museum con defunta sdraiata e cerbiatto che si abbevera (Tarquinia – IV secolo a.C.). Il Trono della tomba 89/1972 a Verucchio, in provincia di Rimini, mostra, nella parte bassa, un uomo e una donna di altissimo rango trasportati in corteo, su carri imponenti, verso un luogo recintato e all’aperto dove si svolge un rito, forse un sacrificio, gestito da due sacerdotesse alla presenza di guerrieri armati di elmo e lancia, e nella parte alta numerose donne intente a varie attività, tra cui quella del lavoro su alti e complessi telai.

Viene riferita un’epigrafe (su sepolcro da Tarquinia del IV-III secolo a.C.) che attesterebbe addirittura una donna magistrato: “il giudice Ramtha è stata moglie di Larth Spitus, è morta a 72 anni, ha generato 3 figli” (Arnaldo d’AversaLa Donna Etrusca, p. 57; Paolo Giulierini in Archeologia Viva – luglio-agosto 2007 p. 58 – Le (discusse) donne d’Etruria).

Aristotele (IV secolo a.C.) afferma che «gli Etruschi banchettano con le loro mogli, sdraiati sotto la stessa coperta» (Fragm. 607 Rose). L’iconografia etrusca (cfr., ad es., il Sarcofago cd. degli Sposi da Caere del VI secolo a.C., esposto al Museo di Villa Giulia in Roma; le pitture della Tomba dei Leopardi del V secolo a.C. e della Tomba della Caccia e della Pesca del VI secolo a.C. di Tarquinia; l’Urna cd. degli Sposi Anziani del II-I secolo a.C., esposta al Museo Guarnacci in Volterra) in effetti dimostra che le donne dell’aristocrazia partecipavano ai banchetti, sdraiate accanto agli uomini o sedute su un trono a fianco del letto, e tale partecipazione ne denota il ruolo nella società. Per converso deve essere ricordato che in Grecia le uniche donne ammesse ai banchetti erano le etere (prostitute). La partecipazione delle donne ai banchetti con gli uomini fu oggetto di pesante censura in termini di immoralità da parte degli autori greci (in particolareTeopompo, scrittore della metà del IV secolo a.C.); tale opinione fu in parte determinata da un atteggiamento di incomprensione, dovuto al ben diverso ruolo sociale attribuito alla donna greca specialmente nel periodo classico, ed in parte all’ostilità verso un popolo nemico che in passato aveva a lungo contrastato i greci.

Il ritrovamento in deposizioni femminili (per quanto è dato desumere dai relativi corredi) di coppie di morsi di cavallo (a BolognaVeio) e di carri (a VeioMarsilianaVetulonia…) sottolinea il prestigio ed al tempo stesso la libertà di movimento delle donne dell’aristocrazia etrusca. La partecipazione della donna etrusca a manifestazioni pubbliche è testimoniata dalle pitture della tomba Tarquinese delle Bighe (fine VI secolo – primi V secolo a.C.). In un fregio che corre su tutte e quattro le pareti della camera funeraria sono raffigurate varie gare sportive: lotta, pugilato, salto, lancio del disco, lancio del giavellotto, corsa di bighe. Il pubblico, seduto su quattro tribune (poste agli angoli delle parete di fondo con quelle laterali), è rappresentato da uomini e donne (matrone con velo e giovinette con tutulus). Nella tribuna raffigurata sulla parete destra, in particolare, una matrona con velo (forse una sacerdotessa) è rappresentata in prima fila e due giovinette, più arretrate, assistono ai giochi tra degli uomini. La matrona con un gesto solenne sembra dare inizio alla gara delle bighe.

Il commediografo latino Plauto (III-II secolo a.C.) allude, attraverso le parole dello schiavo Lampadione, all’uso diffuso tra le donne etrusche di prostituirsi per procurarsi la dote (Cistellaria 296-302): “Io ti chiamo per ricondurti tra le ricchezze, e sistemarti in una doviziosa famiglia, dove avrai da tuo padre ventimila talenti per dote. Perché la dote non la debba fare qui da te, seguendo la moda etrusca, prostituendo vergognosamente il tuo corpo!”. Anche per il riferimento alla prostituzione che sarebbe stata praticata dalle donne etrusche valgono le considerazioni già svolte a proposito della partecipazione femminile ai banchetti a proposito degli autori greci. Sappiamo semmai da fonti storiche (Gaio Lucilio – II secolo a.C.) fa riferimento a “le cortigiane di Pyrgos”: apud Servio, Ad Aeneid., R, 164), ed in parte anche archeologiche, che in Etruria la prostituzione veniva praticata nella sua forma più “nobile”: la prostituzione sacra (diffusa in SiriaFenicia,CiproCorintoCartagineErice). Il santuario del porto di Pyrgi (odierna Santa Severa) era costituito da due templi principali, uno greco e uno tuscanico più recente, racchiusi da un recinto sacro che lungo un lato presentavano tante piccole cellette che forse servivano appunto per la prostituzione sacra. Come noto, le prostitute sacre offrivano se stesse ai pellegrini e ai viaggiatori per sostenere le spese del tempio ed incrementarne le ricchezze.

Alte cariche dello Stato

L’Assemblea dei rappresentanti dei nobili, controlla le decisioni del Lucumone;

  • Il Lucumone, re di ogni città-stato, più tardi sostituito dagli zilath;
  • Zilath, magistrati eletti annualmente in epoca più avanzata (riconducibili alla carica dei pretori romani).

Simbolo del potere etrusco, poi esportato a Roma dal quinto re Tarquinio Prisco, furono gli anelli,[22] lo scettro, il paludamentum,[22] la trabea,[22] la sella curule,[22] le faleree,[22] toga pretesta[22] e i fasci littori.[22] Ancora agli Etruschi si deve il primo trionfo celebrato su un cocchio dorato a quattro cavalli,[22] vestito con una toga ricamata d’oro e una tunica palmata (con disegni di foglie di palma),[22] vale a dire con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l’autorità del comando.[22]

Abbigliamento

Nell’abbigliamento etrusco, i principali tessuti erano la lana, generalmente molto colorata, e il lino, usato nel suo colore naturale. Gli Etruschi usavano abiti adatti per entrambi i sessi, accanto ad altri tagliati espressamente per uomo o per donna.[23]

Un indumento solamente maschile era il perizoma, simile a dei calzoncini, mentre sia uomini che donne, specialmente se avanti negli anni, indossavano indifferentemente lunghe tuniche, talvolta abbinate ad un cappello. Gli etruschi inoltre mostravano particolare interesse per le calzature, realizzate in cuoio o in stoffa ricamata. Molto eleganti erano dei sandali con la punta all’insù dall’aspetto orientale. Il sandalo con base in legno aveva una snodatura al centro che permetteva di piegare il piede. L’eleganza degli etruschi era proverbiale, il motto “vestire all’etrusca” fu in voga fra i romani per indicare grande raffinatezza. Dai rinvenimenti si sa che ricamassero tessuti a filo d’oro.[24]

Le donne, ma anche gli uomini, impreziosivano l’acconciatura e l’abito con gioielli di raffinata fattura (diademiorecchinibraccialettianelli e fibule). I gioielli erano di bronzo, d’argento, d’elettro e d’oro. L’elettro era una lega molto usata d’argento e oro.[25][26]

Alimentazione

L’ingrediente base per l’alimentazione etrusca fu per molto tempo la farina di farro, un tipo di grano facilmente coltivabile. Prima di essere usati come cibo, i chicchi di farro dovevano essere torrefatti, per togliere loro la gluma (una specie di pellicina che li ricopre) ed eliminare l’umidità.[27]

Con la farina di farro venivano preparate pappe e farinate, bollite con acqua e latte. L’alimentazione degli Etruschi prevedeva, oltre ai cereali, anche varie specie di legumi, come lenticchie,ceci e fave.[27]

Nonostante l’alimentazione basata su cereali e legumi fornisse tutte le principali sostanze nutritive, essa veniva integrata con la carne di maiale, la selvaggina, il cinghiale, la carne di pecora e tutti i prodotti derivati dal latte. Molto apprezzato era anche il pesce, in particolar modo presso Populonia e Porto Ercole.[27]

Gli etruschi conoscevano inoltre la forchetta: ne sono state rinvenute identiche a quelle odierne, cioè con i quattro rebbi incurvati, ma con un fusto sottile cilindrico e una pallina in cima. Si suppone però che l’uso non fosse individuale ma servisse a fermare la carne per tagliarla nel piatto di portata.[27]

Medicina

Gli Etruschi possedevano una buona conoscenza della medicina, esemplificata dalle nozioni di anatomia e fisiologia, dalla pratica della trapanazione cranica e delle protesi dentarie in oro, evidenziate dai resti umani e dalle terrecotte. Era praticata la circoncisione, e le sezioni anatomiche mettono in risalto molti organi interni, come il cuore e i polmoni. Sorprendenti sono gli utericontenenti all’interno una pallina, che potrebbero risultare la più antica raffigurazione di vita intrauterina della storia.[28]

Giochi e passatempi

Diversi sono i giochi e i passatempi etruschi di cui si è tramandata testimonianza, anche grazie alle pitture rinvenute nelle tombe, come il cottabo (gioco d’abilità con anche valenze erotiche), una sorta di corrida (attestata nella Tomba degli Auguri a Tarquinia), il gioco della pertica (paragonabile all’albero della cuccagna).

Religione[

Politeisti, gli Etruschi eressero templi sia in contesti urbani (sulle acropoli), sia in punti di frequente transito (porti, valichi). Le preghiere e le offerte di sacrifici (alimenti, bevande, ex voto), eseguite nei templi, miravano a ottenere la benevolenza degli dei.

La centralità della religione nella vita quotidiana emergeva soprattutto dal punto di vista ritualistico: si credeva che attraverso l’interpretazione di “segni”divini fosse possibile determinare la volontà degli dei. Tale interpretazione era compito delle figure sacerdotali, distinte in:

  • àuguri: sacerdoti che interpretavano la volontà divina attraverso lo studio del volo degli uccelli (pratica più comunemente diffusa fra i romani);
  • aruspici: sacerdoti che sapevano leggere le viscere (fegato e intestino) degli animali;
  • fulguratores: sacerdoti abilissimi (e per questo rinomati) nell’interpretazione dei fulmini.

L’insieme delle dottrine del complesso mondo religioso etrusco era racchiuso in quella che i romani definirono Etrusca Disciplina, una raccolta codificata di riti e pratiche dei rapporti con il divino e non solo.

Il divino

Il rapporto tra l’uomo etrusco e il divino era un rapporto di totale sottomissione e di annullamento dell’individuo di fronte alla volontà degli dèi. Erano questi ultimi, infatti, a stabilire il corso del destino degli uomini (e anche quello degli Stati). Di fronte alle decisioni divine, l’uomo non si poteva opporre, ma solo sottostare. Poteva però prevedere il proprio destino attraverso un attento studio dei segni che gli dèi mandavano periodicamente sulla terra, per poi necessariamente adeguarsi ad esso, osservando inoltre rigide regole comportamentali per non recare offesa agli dèi. Gli era inoltre concesso di fare sacrifici e riti propiziatori per chiedere, magari, di mutare un destino rivelatosi sfavorevole.

Le divinità

Gli dèi etruschi alle origini della civiltà erano semplici entità, spiriti privi di forma che si manifestavano occasionalmente. È solo con la fase orientalizzante che, sotto l’influsso culturale dei greci, le divinità etrusche assumono l’aspetto antropomorfo. I tre dèi più importanti sono: Tinia (che corrisponde a Zeus), la sua sposa Uni (Era) e loro figlia Menrva (Atena). Altri dèi importanti sono:Turms (Ermes), Fufluns (Dioniso) e Voltumna. Oltre agli dèi esistevano anche i demoni, che secondo la credenza etrusca si incontravano dopo la morte. I principali sono: Charun (che corrisponde pienamente al Caronte dei greci), un demone che accompagnava le anime nell’aldilà ed è raffigurato alato, con una bocca simile a quella degli uccelli, con orecchie aguzze e armato di un martello. Un altro demone ostile è Tuchulcha: anch’esso è raffigurato con un becco, due ali e coperto di serpenti sulla testa. Una dea amichevole è invece Vanth.

La divinazione

Nella cultura etrusca la divinazione occupava un ruolo fondamentale. Essa si basava sul concetto di predestinazione, secondo il quale la vita di ogni essere vivente sarebbe già stata scritta dagli dèi fin dalla nascita. L’arte divinatoria permetteva all’uomo etrusco di prevedere, attraverso lo studio di segni specifici, la volontà divina – e quindi il proprio destino – solo per adeguarvisi.

La divinazione etrusca si divide in due branche principali: l’aruspicina, ovvero l’interpretazione della volontà divina attraverso lo studio delle viscere animali – e, più precisamente, fegato(epatoscopia) ed intestino (estispicio) – e la dottrina dei fulmini, ovvero l’interpretazione dei fulmini. Contrariamente a quanto si è soliti pensare, l’arte divinatoria augurale (ovvero lo studio del volo degli uccelli), pratica tipica dei sacerdoti romani, non era tenuta molto in considerazione presso gli etruschi.

L’arte divinatoria si basava sulla determinazione del templum, ossia uno spazio sacro che rifletteva la suddivisione del cielo. Secondo gli etruschi la volta celeste è attraversata idealmente da due rette perpendicolari: cardo (nord-sud) e decumano (est-ovest). Queste due rette dividono la volta celeste in quattro principali settori: partendo dall’asse orizzontale (decumano) e dirigendosi verso sud si delimita la pars àntica (parte anteriore), mentre verso nord la pars postica (parte posteriore). Allo stesso modo, prendendo l’asse verticale (cardo) si delimita a ovest lapars hostilis o pars occidentalis o pars dextare, mentre ad est la pars familiaris o pars orientalis o pars sinistrae. Ogni quadrante (formato dall’intersezione delle due rette) veniva diviso in altri quattro settori, per un totale di 16 settori, ognuno dei quali costituiva la sede di una divinità diversa: nel quadrante nord-est dimoravano le divinità più favorevoli (fra cui Tinia e Uni), mentre i settori del quadrante nord-ovest erano i più infausti, ed erano dedicati ai demoni dell’oltretomba; infine, i quadranti sud-ovest e sud-est erano le dimore delle divinità terrestri e della natura. A seconda del settore del cielo in cui apparivano fulmini, meteore o altri prodigi, il sacerdote risaliva alla divinità che governava quel settore e che, quindi, aveva scatenato il segno (stabilendo in questo modo se era di buon auspicio o meno), per poi cercare di dare un’interpretazione più concreta della volontà divina in base alla descrizione del prodigio e alle circostanze in cui si era verificato. La suddivisione della volta celeste si proiettava, poi, sugli elementi della terra, grazie alla stretta correlazione tra macrocosmo e microcosmo, punto cardine della religione etrusca. Quindi anche il fegato degli animali sacrificati rifletteva lo schema celeste e veniva idealmente suddiviso in settori dedicati alle varie divinità, le cui volontà venivano interpretate per mezzo delle particolarità osservate, come anomalie, cicatrici o altri segni particolari.

Libri sacri e riti etruschi

Con il termine Etrusca Disciplina (in etrusco Tesns Rasnas) si intende il complesso di norme e dottrine che regolavano la religione etrusca, per lo più raccolte in una serie di libri costituenti una sorta di “sacra scrittura”. Tutto ciò che si sa di questa etrusca disciplina lo si deve agli autori romani (come ad esempio Cicerone), poiché tutti gli scritti etruschi sono andati perduti. I libri principali sono tre:

Libri Haruspicini

Sono chiamati anche Libri Tagetici, da Tagete, il semidio ragazzo figlio di Genio e di Tinia – emerso dal solco di un aratro nella campagna di Tarquinia – e da lui rivelati agli etruschi, insegnando loro l’arte e la tecnica dell’aruspicina. Questi libri trattavano l’interpretazione dei segni divini attraverso lo studio delle viscere animali (aruspicina).

Libri Fulgurales

Sono chiamati anche Vegonici, dal nome della ninfa Vegoia da cui avrebbero avuto origine. In essi si trattava lo studio dei fulmini. Il fulmine era considerato il segno divino più importante, poiché era la manifestazione materiale del dio Tinia. A seconda della parte del cielo da cui veniva scagliato (Tinia poteva usufruire di tutti i settori della volta celeste e addirittura delegare altre divinità), del colore, della distanza, della forma e di altri aspetti, si cercava di interpretarne il significato. Importante era anche il numero dei fulmini scatenati: il primo veniva considerato un semplice avvertimento; il secondo era segno di minaccia; il terzo significava distruzione certa.

Libri Rituales

Essi contenevano l’elenco ed una descrizione scrupolosa e dettagliata dei riti religiosi da seguire in particolari occasioni. Tipico era il rito di fondazione di una città: dapprima si tracciavano con il lituo (bastone ricurvo in cima usato dalle massime autorità e dai sacerdoti) due rette perpendicolari (Cardo e Decumano), formando quella che veniva chiamata croce sacrale, al cui centro (nel punto esatto di incontro delle due rette) veniva scavata una fossa (considerata come la porta di collegamento tra il regno dei vivi e quello dei morti) e ricoperta da lastre di pietra. Proprio nel punto esatto della fossa, il sacerdote, rivolto verso Sud, doveva pronunciare la seguente formula: “Questo è il mio davanti, questo il mio didietro, questa la mia sinistra, questa la mia destra“.[29] Poi veniva tracciato il perimetro della città utilizzando un vomere di bronzo e prestando attenzione affinché le zolle di terra sollevate ricadessero all’interno (segnando il punto dove sarebbero state erette le mura, mentre il solco ne segnava il vallo). In corrispondenza delle porte cittadine il vomere veniva sollevato. Ogni città doveva avere un minimo di tre porte: una dedicata al dio Tinia, uno alla dea Uni e la terza alla dea Menrva (in onore dei quali dovevano essere dedicati altrettanti templi e altrettante strade). La porta a Est veniva considerata di buon auspicio; per contro, la porta a Ovest era la porta infausta (da lì venivano fatti passare i condannati a morte). Subito all’interno e all’esterno delle mura perimetrali vi era una striscia di terra chiamata pomerio dove era vietato sia coltivare che edificare. Infine, all’interno della città le strade venivano tracciate parallele alla croce sacrale, cosicché da formare un reticolato (tipo scacchiera) dove ogni quadrato corrispondeva a un isolato.
Parte integrante dei Libri Rituales sono:

  • Libri Acherontici, sul mondo dell’oltretomba.
  • Libri Fatales, sulla suddivisione del tempo e la durata del ciclo vitale dell’uomo e di uno Stato. Secondo la credenza etrusca, la vita di ogni essere vivente era divisa in cicli di sette anni ciascuno (chiamati Settimane), per un massimo di dodici cicli (84 anni). La vita media dell’uomo etrusco arrivava circa fino a dieci cicli (70 anni) e nell’ultimo anno di ogni ciclo (considerato il più critico) si doveva prestare particolare attenzione ai segnali divini. Anche la durata degli Stati era stabilita a priori dagli dèi, ed era suddivisa in cicli chiamati Secoli, la cui durata non era di cento anni l’uno, ma cambiava di volta in volta (erano sempre gli dèi a deciderlo). Uno Stato poteva durare al massimo dieci cicli. Al termine di ogni ciclo gli dèi mandavano segni chiari e ben precisi, come il passaggio di una cometa, epidemie, o altre calamità. A quel punto gli etruschi capivano che un’era (o secolo) era passata e stava per cominciarne un’altra.
  • Ostentaria, sull’interpretazione dei prodigi.

L’etrusca disciplina era tenuta in grande considerazione presso i romani, tanto che questa letteratura sacra etrusca fu tradotta in latino.

Economia

Plinio il giovane descrive l’Etruria, dalla sua residenza di Città di Castello in questo modo:

« […] una piana vasta e spaziosa è cinta da montagne che hanno sulla sommità boschi antichi di alto fusto, la selvaggina vi è abbondante e varia, ai loro piedi, da ogni lato, si estendono, allacciati tra loro in modo da coprire uno spazio lungo e largo; al limite inferiore sorgono boschetti, le praterie cosparse di fiori producono trifoglio e altre erbe aromatiche tenere, essendo tutti quei terreni irrigati da sorgenti inesauribili. Il fiume attraversa la campagna e siccome è navigabile porta alla città i prodotti dei terreni a monte, almeno in inverno e primavera, perché in estate è in magra. Si prova un piacere grandissimo a contemplare l’insieme del paesaggio oltre la montagna perché ciò che si vede non sembrerà una campagna, ma un quadro di paesaggio di grande bellezza. Questa varietà, questa disposizione felice, ovunque tu posi lo sguardo, lo rallegra. »
(Gaio Plinio Cecilio Secondo)

Vari poeti hanno spesso decantato l’Etruria come un territorio opulento, fertile e ricco, per l’abbondanza di fauna, la ricchezza dei raccolti e delle vendemmie. Questo non valeva per alcune aree costiere ed interne: l’attuale Maremma e la Val di Chiana erano infatti malsane e paludose, fonti di continue epidemie malariche e difficili da coltivare, per questo i re etruschi investirono molte risorse al fine avviare una completa bonifica dei loro territori e di quelli vicini; la stessa Roma subì un’importante opera di risanamento attraverso opere di canalizzazione e drenaggio, creazione di cisterne e fogne.[30]

Produzione cerealicola

L’Etruria diventa un importante produttore di cereali già nel V secolo a.C. Roma mostra una forte dipendenza dal grano prodotto dagli etruschi, specialmente da quello di Chiusi e Arezzo. DaPlinio il Vecchio si viene a conoscenza che tra i grani prodotti vi era il siligo usato principalmente per la produzione di pane, focacce e pasta tenera. Ovidio, meglio conosciuto per scritti come l’Ars amatoria, descrive le proprietà delle farine etrusche e le consiglia, data la loro finezza, come cipria per abbellire i volti delle donne romane.[30]

Viticoltura

Pur non potendo datare esattamente l’inizio dell’attività viticola da parte degli etruschi, si può supporre che prese piede agli inizi dell’età del ferro, anche se certamente la vite era già conosciuta in epoche precedenti.[31]

Di tale attività le popolazioni italiche fecero una vera e propria impresa commerciale tanto che Varrone cita in un suo scritto:

« […] non è l’Italia così ricca di alberi da sembrare un giardino? Forse che la Frisia, da Omero detta vitifera… in quale terra un jugero rende 10 o anche 15 cullei di vino, come alcuni luoghi d’Italia? »
(Varrone)

La viticoltura etrusca differiva da quella della Magna Greca poiché usava sorreggere le viti legandole ad altri alberi (“vite maritata” o “a tutore vivo”) anziché a un basso paletto o ceppo (“a tutore morto”). L’uso degli Etruschi si diffuse anche nella aree soggette alla loro influenza, come quelle abitate da Sanniti e Galli cisalpini, e sopravvisse per secoli allo loro scomparsa.

Molti greci apprezzavano il vino Etrusco: Dionisio di Alicarnasso indicava come eccellente quello dei Colli romani, altri preferivano i vini prodotti nell’area del Vino Nobile di Montepulciano, delBrunello e di tutta l’area dell’odierno Chianti per il loro aroma e per il loro rosso brillante. Sempre molto conosciuti, anche per far capire l’entità e l’importanza della produzione viticola, erano i vini di LuniAdriaCesena, il rosato di Veio, i vini dolci d’OrvietoTodi ed Arezzo, famosi all’epoca per essere particolarmente forti.[32]

Sempre agli Etruschi si devono i primi studi sulle coltivazioni di vite, gli innesti, la creazione di ibridi, la disposizione degli impianti, tanto da essere apprezzati come validi coltivatori in tutto il bacino del mediterraneo.[32]

L’ulivo

Non vi sono certezze circa la produzione da parte degli etruschi dell’olio d’oliva, di cui erano consumatori, prima del VII secolo a.C. La coltivazione dell’ulivo non era documentata ai tempi diTarquinio Prisco 616 a.C. Esportata in Calabria e poi in Sicilia ad opera dei greci, l’olivicoltura, prese piede verso nord. Durante la decadenza delle lucumonie, si inizia a trovare traccia dei primi impianti nel territorio dell’Etruria. Questo, in verità, non esclude che l’oleicoltura fosse praticata anche precedentemente, come sembrerebbe più probabile. Fu solo dopo la fusione del popolo Etrusco con quello Romano che si ebbe una vera ed ampia diffusione della pianta d’ulivo, tale espansione degli impianti era indotta sia dall’alto valore commerciale dell’olio che dal clima favorevole trovato dalla pianta d’ulivo in Toscana, Umbria e alto Lazio.[30]

I commerci

Il commercio del ferro, del rame e del piombo con Roma rappresentò anche un elemento stabilizzante nelle relazioni tra le due civiltà: gli Etruschi furono di fatto rispettati fino a quando poterono fornire armi di qualità ai Romani stessi.

Produzioni tipiche

  • Arezzo(Aritim): pale, bacili, falci, elmi, scudi, mole, bestiame vario.
  • Bolsena: vino, sculture in bronzo, ceramica e buccheri.
  • Cerveteri(Caisra): buccheri, oreficeria, argento lavorato, frumento, bronzo lavorato, carni di maiale e cinghiale lavorato.
  • Chiusi(Clevsi): ceramiche e buccheri, vasi, legname, vino, bacili.
  • Perugia(Perusia): sculture in bronzo, vino, legname di pino, castagno ed abete.
  • Populonia(Pupluna): ferro e bronzo grezzo, tessuti, armi, elmi.
  • Roselle(Rusel): lance, spade, coltelli, elmi, scudi, legno d’abete, tegole e tubature in terracotta.
  • Tarquinia(Tachuna): Vino, olio, lino, materiali per la concia delle pelli, tufi speciali (tufo nenfro proveniente però dalla zona di Tuscania)
  • Veio: Ceramiche, terrecotte, carni lavorate.
  • Vetulonia(Vetluna): oreficeria, bronzo, metalli lavorati, minerali grezzi, alcune suppellettili.
  • Volterra(Velathri): pece, ceramica, legno d’abete, frumento.
  • Vulci: decorazioni suppellettili e statue in bronzo, ceramiche.

Lingua

Cippo di Perugia (IIIII secolo a.C.)

L’Etrusco fu una lingua parlata e scritta in diverse zone d’Italia e precisamente nell’antica regione dell’Etruria (odierne Toscana, Umbria occidentale e Lazio settentrionale), nella pianura padana – attuali Lombardia ed Emilia-Romagna, dove gli Etruschi furono espulsi successivamente dai Galli e nellapianura campana, dove furono poi assorbiti dai Sanniti. Tuttavia, il latino sostituì completamente l’Etrusco, lasciando solo alcuni documenti e moltiprestiti linguistici nel Latino (per esempio, persona dall’Etrusco fersu), e numerosi toponimi, come Tarquinia, Volterra, Perugia, Mantova, (forse) Parma, e un po’ tutti quelli che finiscono in “-ena” (Cesena, Bolsena, ecc.). Altri esempi di termini di probabile origine etrusca sono: atrium, fullo, histrio, lanista, miles, mundus, populus, radius, subulo. La lingua etrusca risulta attestata tra il IX e il III secolo a.C.

Era una lingua, secondo i più, non indoeuropea, ma alcuni linguisti, ad esempio Adrados, recentemente hanno proposto una (controversa) filiazione da una fase molto antica delle lingue indoeuropee di tipo Anatolico, particolarmente il luvio (si veda anche l’analogo problema del tartessico e l’ipotesi di Wikander). La lingua etrusca, inizialmente diffusa nell’Etruria propria (Alto Lazio – Toscana, tra Tevere e Arno), si affermò successivamente in un’area più vasta, in parte della pianura padana e della Campania, in seguito alla notevole espansione della cultura etrusca intorno al VI secolo a.C. In particolare il dialetto di Comacchio, che presenta una particolare fonetica differente da tutti i dialetti confinanti, sarebbe, secondo un’ipotesi[33] la lingua parlata attualmente più simile all’antico etrusco, mantenutasi grazie all’isolamento territoriale in cui è rimasto il territorio comacchiese fino all’epoca moderna.

Giacomo Devoto propose e più volte sostenne la definizione della Lingua etrusca come Peri-indoeuropea[34]. Altri studiosi (Helmut Rix) collegano l’etrusco anche alla lingua retica, parlata daiReti nell’area alpina fino al III secolo d.C.

L’alfabeto

Esistono due tipi di alfabeto etrusco:

  • arcaico: usato tra il VIIe il V secolo a.C., è di stretta derivazione dall’alfabeto greco, appena modificato per adattarlo alla lingua etrusca;
  • recente, usato tra il IVe il I secolo a.C., deriva dall’alfabeto arcaico ed è l’alfabeto definitivo usato dagli etruschi fino al loro completo assorbimento nella civiltà romana.

Il verso della scrittura è bustrofedico nelle più antiche iscrizioni, mentre quelle classiche hanno l’andamento verso sinistra come nel punico. Poche iscrizioni seguono l’andamento da sinistra a destra, e in tal caso i caratteri etruschi sono riflessi. All’inizio le parole venivano scritte l’una di seguito all’altra senza punteggiatura o caratteri di separazione, poi si iniziò ad inserire da uno a quattro punti sovrapposti per separare le parole. Non esisteva il carattere maiuscolo o minuscolo.

Cultura

Arte

L’artigianato artistico etrusco si sviluppa a partire dalla produzione villanoviana e si evolve a seguito degli influssi che giungono dall’esterno grazie agli scambi commerciali in area mediterranea. La produzione interna eccelle soprattutto nell’ambito della metallurgia: vasi, candelabri e statuette. La committenza è costituita dal ceto aristocratico e dalle esigenze della collettività in seguito ai fenomeni di urbanizzazione tra VII e VI secolo a.C. Gran parte della migliore produzione e delle importazioni è destinata ai corredi funerari, dove si depongono oggetti di lusso: gioielli, specchi e ciste.

Architettura

Rilevanti informazioni sull’architettura etrusca sono offerte dal De Architectura di Vitruvio, che li classificava (in particolare le colonne) sotto un nuovo ordine, quello di “Tuscanicae dispositiones“, esemplificando l’elementare metodo di tracciamento dell’impianto tipico e i caratteri essenziali della struttura architettonica. Il tempio era accessibile non tramite un crepidomaperimetrale, ma attraverso una scalinata frontale, orientata a mezzogiorno, cioè verso la parte favorevole del cielo. L’area del tempio era divisa in due zone: una antecedente o pronao con otto colonne disposte in due file da quattro, una posteriore costituita da tre celle uguali e coperte, ognuna dedicata ad una particolare divinità. A differenza dei templi greci ed egizi, che si evolvevano assieme alla civiltà e alla società, i templi etruschi sono rimasti sostanzialmente uguali nei secoli, forse a causa del fatto che nella mentalità etrusca essi non erano la dimora terrena della divinità, bensì un luogo in cui recarsi per pregare gli dei (e sperare di essere ascoltati). Elementi decorativi del tempio etrusco sono perlopiù applicazioni fittili, in buona parte realizzate serialmente a stampo. Fra queste, in particolare, acroteri ed antefisse in terracotta dipinta.

L’architettura e le pratiche funerarie

Le tombe etrusche si sono conservate, poiché costruite in pietra. Per la religione etrusca l’uomo necessita, nell’aldilà, di un ambiente familiare in cui trascorrere la vita dopo la morte, assieme agli oggetti personali che possedeva in vita: ciò spiega la cura con cui venivano costruite le necropoli. Le necropoli (“città dei morti”) generalmente erano poste al di fuori della cinta muraria delle città. Erano composte principalmente da sepolture ipogee, ambienti sotterranei sovrastati da un tumulo che riproducevano la disposizione delle abitazioni, con arredi, vasi, stoviglie, armi, gioielli, ecc. Ognuna di queste tombe si articolava in diverse camere sepolcrali di dimensioni proporzionali alla ricchezza e alla notorietà del defunto o della famiglia del defunto. Anche gliaffreschi alle pareti riproducevano scene quotidiane e costituiscono, assieme ai corredi funerari, una delle principali fonti di informazione sulla vita degli Etruschi, che concepivano l’aldilà come una prosecuzione della vita terrena. Altre tipologie tombali venivano ricavate all’interno di cavità naturali preesistenti (grotte, caverne, ecc.). Le tombe a edicola erano costruite completamente al livello della strada, a camera unica e a forma di tempio in miniatura nelle intenzioni, ma in pratica molto simili alle abitazioni con tetto a doppio spiovente dei primi insediamenti etruschi. Nella simbologia etrusca era molto significativa la forma a tempietto: essa rappresentava il punto intermedio del viaggio che il defunto doveva compiere dalla vita alla morte, una sorta di ultima tappa della vita terrena.

Scultura

La scultura in pietra di ambito funerario era presente in rilievi su lastre, sul tamburo esterno delle tombe a tumulo o scolpita nella roccia all’interno delle stanze sepolcrali; era presente a tutto tondo in opere di statuaria destinate alle aree esterne nei pressi delle tombe o nella figura del defunto giacente sui sarcofagi; notevole tra gli altri il sarcofago calcareo della tomba dei Partunu, opera di pregevole fattura, databile a età ellenistica. Nella lavorazione della terracotta particolare importanza riveste la decorazione fittile di ambito architettonico.

Pittura

La pittura etrusca rappresenta una delle manifestazioni più elevate dell’arte e della civilizzazione etrusca. Si sviluppa nel corso di diversi secoli dall’VIII sino al II secolo a.C. in contemporanea con la più evoluta pittura greca da cui è influenzata in molti aspetti, pur sviluppando una propria autonomia. La pittura etrusca ci è pervenuta da diverse fonti: gli affreschi funerari in diverse necropoli dell’Etruria, la pittura vascolare, alcuni frammenti di pittura in edifici pubblici. La gran parte delle testimonianze superstiti di pittura etrusca proviene tuttavia dalle tombe, che erano affrescate con scene di vita quotidiana (cacce, banchetti) ad affresco, con colori vivaci e predominanza della figura umana. I colori erano ottenuti attraverso la polverizzazione di sostanze minerali e i pennelli erano in setola animale. Le pareti delle tombe erano dipinte a colori vivaci (imitando, in taluni casi, la volta celeste, o scene di vita vissuta) per contrastare l’oscurità, simbolo della morte spirituale. Decorate a fresco su un leggero strato di intonaco, presentavano scene di carattere magico-religioso raffiguranti banchetti funebri, danzatori, suonatori di aulós, giochi, paesaggi. Dopo il V secolo a.C. figure di demoni e divinità si affiancano agli episodi di commiato, nell’accentuarsi del mostruoso e del patetico.

Tra i sepolcri più interessanti si annoverano le tombe che vengono denominate del Guerriero, della Caccia e della Pesca, delle Leonesse, degli Auguri, dei Giocolieri, dei Leopardi, dei Festoni, del Barone, dell’Orco e degli Scudi. Parte dei dipinti, staccati da alcune tombe allo scopo di preservarli (tomba delle Bighe, del Triclinio, del Letto Funebre e della Nave), sono custoditi nel Museo nazionale Tarquiniese.

Oreficeria

Gli artigiani etruschi furono in grado di praticare le più sofisticate tecniche di lavorazione dei metalli preziosi: repoussé, incisione, filigrana e granulazione.

In particolare, la granulazione è una raffinata tecnica di lavorazione dell’oro grazie alla quale gli Etruschi venivano considerati dei veri e propri maestri dell’arte orafa. Questa tecnica consisteva nell’applicare piccolissime sfere (granuli) d’oro in particolari decorazioni sui gioielli. Si partiva da sottilissimi fili d’oro (di pochi decimi di millimetro di diametro) tagliati in minuscole parti fino ad ottenere una sottile “paglia”. Questa, mescolata a carbone in polvere, veniva compressa in un crogiolo (sigillato con argilla) e sottoposta ad elevate temperature fino a raggiungere la fusione. La reazione chimica provocata dal carbone impediva all’oro fuso, durante il successivo processo di raffreddamento, di ricomporsi in maniera uniforme, costringendolo – invece – a “stracciarsi” formando una serie di minuscoli granellini. Una volta raffreddato completamente l’oro veniva lavato. A quel punto, per applicare i granelli sul gioiello veniva utilizzata una speciale colla (composta principalmente da carbonato di rame, acqua e colla di pesce) spalmata direttamente sulla superficie del monile. I granuli potevano, così, essere applicati in modo da formare una particolare decorazione o disegno. Per saldare le sfere d’oro permanentemente al gioiello si sottoponeva lo stesso al calore, all’interno di una muffola chiusa. In questo modo il rame della colla si fondeva, legandosi all’oro. L’ultima fase della lavorazione consisteva nel lasciare il gioiello all’aria, in modo che le sfere d’oro acquistassero lucentezza, perdendo quella caratteristica patina scura formatasi durante la fusione con il carbone del primo processo di lavorazione[35].

Già in uso presso gli antichi Egizi, la tecnica fu introdotta in Etruria in epoca orientalizzante, dove raggiunse un elevato grado di raffinatezza.

Musica e danza

Presso gli Etruschi la musica non accompagnava solo la danza ma anche la caccia, le gare sportive, i banchetti e le funzioni religiose. Un brano della “Storia degli Animali”, scritta da Claudio Eliano nel II secolo riporta che gli Etruschi, quando andavano a caccia di cinghiali e di cervi, non si servivano solo dei cani e delle reti, ma anche della musica: essi dispiegavano tutt’intorno le reti per tendere le trappole alle fiere, poi interveniva un esperto suonatore di flauto per produrre con il suo strumento, una melodia, la più dolce e armoniosa possibile. Questa, diffondendosi nella silenziosa pace delle valli e dei boschi arrivava fino alle cime dei monti, entrando nelle tane e nei giacigli delle fiere.

Quando la melodia giungeva alle orecchie degli animali, questi erano inizialmente presi dal timore, poi la musica li affascinava fino a farli uscire per andare incontro a quella voce al cui richiamo non sanno resistere. In questo modo le belve dell’Etruria erano trascinate nelle reti dei cacciatori dalla suggestione della musica.

Calendario

Poco ci resta del computo del tempo degli etruschi.

Non avevano le nostre settimane e quindi neppure il nome dei giorni. Probabilmente il giorno iniziava all’alba. L’anno invece poteva iniziare come nella Roma arcaica il primo giorno di marzo (cioè il nostro 15 febbraio), o qualche giorno prima, il 7 febbraio.

Probabilmente calcolavano i giorni di ogni mese come i romani, con le calende, che è una parola di origine etrusca.

Ci resta testimonianza del nome di otto mesi del calendario sacro:

  • uelcitanus(lat.) = marzo.
  • aberas(lat.) = aprile; apirase = nel mese di aprile.
  • ampiles(lat.) = maggio; anpilie = nel mese di maggio.
  • aclus(lat.) = giugno; acal(v) e = nel mese di giugno.
  • traneus(lat.) = luglio.
  • ermius(lat.) = agosto.
  • celius(lat.) = settembre; celi = nel mese di settembre.
  • xof(f) er(?)(lat.) = ottobre.

Gli Etruschi nella cultura moderna

Gli studi e gli scavi archeologici

Il Medioevo ed il Rinascimento

Sebbene la memoria degli antichi Tusci riaffiorasse sporadicamente nelle cronache del tardo Medioevo toscano, fu con il Rinascimento che si cominciò a guardare alle testimonianze del mondo etrusco come espressioni di una civiltà definita e distinta da una generale “antichità classica”. Idea che fu favorita anche dai governanti di Firenze (Medici soprattutto), diventati dal Quattrocento padroni di gran parte della Toscana ed interessati a farsi riconoscere da tutte le potenze europee (papato e impero, per primi) signori di uno Stato toscano presentato come continuatore della “gloriosa Etruria”.

Sporadici ritrovamenti di tombe e reperti alimentarono, nel XV e XVI secolo, “gli scritti pieni di ricostruzioni fantastiche di Annio da Viterbo[36] e le falsificazioni archeologiche che egli confezionò a supporto delle sue Antiquitatum variarum[37]. Sarà con Leon Battista Alberti e con Giorgio Vasari che si darà avvio ad una parziale teorizzazione dell’arte e dell’architettura etrusca (importante, a metà del Cinquecento, il rinvenimento della Chimera di Arezzo). Nel corso del XVI secolo il richiamo dell’antica Etruria spostò l’attenzione dalla Tuscia laziale alla Toscana propria, dove trovò terreno fertile e propizio per il suo sviluppo, culminando nel Settecento in quel movimento di studi antiquari e ricerche che prenderà il nome di Etruscheria.[38]

Il Settecento e l’Ottocento: l’Etruscheria e l’Archeologia Filologica

Infatti, proprio il XVIII secolo può essere considerato il secolo della scoperta dell’Etruria. Il primo tentativo di sintesi delle conoscenze etruscologiche dell’epoca risale all’opera De Etruria Regalidi Thomas Dempster, risalente al 1619 ma pienamente valorizzata solo nel secolo successivo. A quest’opera fecero eco quelle di Giovanni Battista Passeri (Picturae Etruscorum in vasculis,1775), di Scipione Maffei (Ragionamenti sopra gl’Itali primitivi1727), di Anton Francesco Gori (Museum Etruscum1743) e di Mario Guarnacci (Origini italiche1772). Già dal 1726 era stata fondata l’Accademia Etrusca di Cortona, che divenne il centro principale di questa attività erudita con i fascicoli delle sue Dissertazioni (17351795). Fuori Italia va ricordata l’opera del franceseAnne-Claude-Philippe de Caylus (Recueil d’antiquités égyptiennes, étrusques, romaines et gauloises1762). Più che per il valore scientifico delle congetture e delle conclusioni, l’etruscheria rimane importante per la passione e la diligenza delle ricerche e della raccolta del materiale archeologico, ancora oggi di valore in caso di monumenti perduti.

L’etruscheria settecentesca culmina con la pubblicazione del Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia dell’abate Luigi Lanzi nel 1789: è una piccola “summa” delle cognizioni sull’Etruria, in tutti i campi (epigrafia, lingua, storia, archeologia, arte). Il Lanzi mostra già di possedere un metodo più sicuro e conoscenze più vaste; giustamente egli attribuisce alla Grecia i vasi fino ad allora ritenuti “etruschi” e traccia una prima, apprezzabile periodizzazione della storia dell’arte etrusca, sulla scorta della greca. Si può in sostanza affermare che questo studioso sia il fondatore della moderna etruscologia.[38]

L’Ottocento si era aperto con un’intensissima attività di ricerca sul campo, soprattutto nella zona dell’Etruria meridionale, con decisive scoperte a TarquiniaVulciCerveteriPerugiaChiusi ed altre località. Cominciano inoltre a formarsi i nuclei di importanti collezioni italiane (degli attuali Museo archeologico nazionale di Firenze e Museo Gregoriano Etrusco di Roma) e straniere (dagli scavi di Luciano Bonaparte quella del Museo del Louvre e dagli scavi di Giampietro Campana quella del British Museum). Neanche gli studi sull’Etruria, però, rimangono immuni dal rinnovamento iniziato da Winckelmann e che porterà dalla fase settecentesca erudita a quella filologica ottocentesca. Risultato ne sono le opere sulla topografia dei monumenti redatte da viaggiatori, archeologi ed architetti stranieri, quali William Gell (The Topography of Rome and its Vicinity1846) e George Dennis (The Cities and Cemeteries of Etruria1851); in Italia si occupò di topografia Luigi Canina (Antica Etruria marittima1851). Non si ferma neppure la pubblicazione di raccolte sistematiche di monumenti, opere d’arte e cataloghi di collezioni, come quella del Museo Gregoriano Etrusco (nel 1842); si iniziano, altresì, raccolte dedicate a singole classi di reperti, come i vasi (E. Gerhard, Auserlesene Vasenbilder1858) e gli specchi (Eduard GerhardEtruskische Spiegel1867). Il confronto con l’arte greca porta, di norma, ad un giudizio negativo nei confronti dell’arte etrusca, giudicata come una forma di artigianato d’imitazione; tale posizione sarà teorizzata in modo esplicito nella prima sintesi sull’arte etrusca che sarà pubblicata solo verso la fine del secolo da J. Martha (L’art Étrusque1889). Anche gli studi epigrafici continuano, per mano di studiosi soprattutto italiani, quali A. Fabretti, che nel 1867 pubblica il Corpus Inscriptionum Italicarum (C.I.I.). È a quest’altezza cronologica che gli studiosi cominciano a porsi il problema dell’origine degli Etruschi in modo critico, senza l’esclusivo ausilio delle fonti letterarie antiche, e di conseguenza anche il problema della lingua degli Etruschi in relazione al gruppo delle lingue indoeuropee.[38]

Il Novecento

Il periodo più recente della storia degli studi etruschi si apre con l’intensificarsi di ricerche archeologiche sistematiche e controllate, grazie anche all’intervento di organi responsabili ufficiali dopo l’unità d’Italia. Si arricchiscono e consolidano le conoscenze sulle fasi più antiche dell’Etruria, cioè il periodo villanoviano (la necropoli di Villanova, presso Bologna, era stata scoperta dal conte Giovanni Gozzadini nel 1856). Si scava a Marzabotto, ad Orvieto ed a Falerii, dove emergono i complessi templari con le loro decorazioni architettoniche. Le imprese di scavo più significative saranno sia nei centri maggiori CaereVeioTarquiniaPopulonia ed altrove, che nei centri minori dell’interno Acquarossa presso Ferento e Poggio Civitate di Murlo, nel senese, e costieri Spina sull’AdriaticoGravisca sul Tirreno e Pyrgi, dove nel 1964 vennero ritrovate le preziose lamine d’oro inscritte. Gli scavi vennero condotti con sempre maggiore attenzione e controllo scientifico, tramite i rilevamenti stratigrafici ed i metodi geofisici di prospezione (fotografia aerea, prospezioni chimiche, fisiche ed elettromagnetiche del terreno) in modo da offrire il maggior numero possibile di osservazioni e dati.

Accanto al consolidamento dei vecchi musei di Roma e Cortona, nascono i grandi musei con collezioni etrusche, come il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, il Museo Topografico dell’Etruria di Firenze ed il Museo di Spina a Ferrara, insieme ad importanti raccolte locali a TarquiniaPerugiaChiusiVillanovaBolognaMarzabottoArezzoAdria (Rovigo) ed altrove. Anche all’estero si rafforzano le collezioni dei grandi musei come la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.

Prosegue intanto la pubblicazione dei materiali archeologici per singole classi di monumenti: terrecotte architettoniche (A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples1940), sarcofagi (R. Herbig, Die jüngeretruskischen Steinsarkophage1952), ceramiche dipinte (John BeazleyEtruscan Vase-Painting1947), oltre ad un rinnovato approccio critico nei confronti della descrizione topografica dei luoghi (H. Nissen, Italische Landeskunde1902 ed A. Solari, Topografia storica dell’Etruria1920).[38]