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La scomparsa di Rasimelli e la sua ultima intervista

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dal CORRIERE DELL’UMBRIA di Renzo Massarelli

Con Ilvano Rasimelli se ne è andato un pezzo di storia politica umbra. Qualunque sia il giudizio sulla persona e sulle sue idee è stata sicuramente una delle figure di maggior rilievo del novecento umbro. Tra l’altro pensando a Città della Pieve, Rasimelli, della RPA, la società di progettazione che aveva creato insieme ad altri due ingegneri, è stato il progetto del primo Piano regolatore generale, adottato nel nostro paese. Vogliamo ricordarlo pubblicando la sua ultima intervista, concessa nel 2008 a Renzo Massarelli. ( N.d.R)

“Vi spiego com`era la mia Perugia com`è cambiata”

Ilvano Rasimelli è scomparso da pochi giorni: partigiano, politico e amministratore ecco l’ultima sua intervista in vita.

E’ morto il 25 luglio quando per i 91 anni gli mancavano tre giorni. Ilvano Rasimelli, partigiano e politico, ha lasciato un vuoto incolmabile.

Proponiamo l’ultima intervista rilasciata in vita, nel 2008, al nostro Renzo Massarelli.

“E’ molto interessante e attuale. Ha attraversato il Novecento e le grandi occasioni della storia ed ora è ancora lì, con i suoi ottant’anni già ampiamente superati, nel suo posto di lavoro alla Rpa, lo studio di progettazione che ha fondato nel 1970, vicino Olmo. Ha conosciuto le condizioni miserevoli dell’Umbria contadina e poi, come assessore del comune di Perugia, ha affrontato i problemi primari della città, come quello dell’acqua, delle strade, delle fogne e poi, come Presidente della Provincia, nella seconda metà degli anni sessanta, è protagonista di quelle piccole e grandi rivoluzioni culturali che hanno segnato l’epoca più creativa del riformismo umbro. Prima ancora c’è la Resistenza e poi gli studi in ingegneria alla Normale di Pisa, dove insegnava Aldo Capitini, e poi, in età matura, l’elezione al Senato e poi ancora, come ogni tanto nella sua vita, il ritorno a quel ruolo di “rompiscatole” del quale è molto fiero. “Un rompiscatole. Tra le novità di un’epoca”, Benucci editore, è il libro che sfoglia amorosamente mentre parla con il cronista, in una stanzetta della Rpa. Un libro con le foto della sua vita e con le vignette che Gino Galli gli regalava fresche fresche a Capodanno (“Gino è il compagno che mi manca di più”).

Ilvano Rasimelli oggi è un vecchio patriarca, con i suoi nipoti che lo chiamano la sera, e la sua casa a Passignano, quella di suo padre, dove si rifugia alla fine della giornata, dopo il lavoro, e dove custodisce un archivio invidiabile, che non parla solo ai suoi ricordi, ma a una parte non marginale della storia contemporanea di questa città e di questa regione. Basterebbe uno solo dei suoi ricordi a rendere una vita interessante, tre o quattro a riempirla tutta come uno scrigno, e lui ne raccoglie tanti, in duecento pagine. L’attività clandestina e poi la Resistenza e, dopo la liberazione di Perugia, il gruppo di combattimento “Cremona” che insegue i nazisti al nord. C’è una foto dove si vede un giovane ventenne, al centro di un gruppo di partigiani, con in mano un mitra e lo sguardo sfrontato, diritto verso l’obiettivo. E’ il più alto e il più magro. Poi arrivano gli anni del dopoguerra, la crisi e i dubbi (“le mie nevrosi”) di un comunista inquieto che sente, da troppi segnali, già prima della guerra e poi successivamente, le speranze tradite nella patria del socialismo reale. E’ così che vive le doppiezze del partito e i suoi ondeggiamenti, tra una propaganda rivoluzionaria e una pratica riformista. Poi assessore al comune di Perugia nel 1952, con il problema dell’acquedotto a brandelli, con le strade esterne al centro storico ancora quasi tutte sterrate, le scuole e le pluriclassi e poi l’urbanistica con il primo piano regolatore presentato in Consiglio nel 1954. Infine la presidenza della Provincia sul finire degli anni sessanta e la straordinaria rivoluzione della psichiatria e la cancellazione del vecchio manicomio. E poi ancora una pausa con il lavoro di ingegnere e il suo ruolo di rompiscatole dentro le discussioni e la divisioni che investono il Pci alle prese con la sua storia e quella degli altri partiti comunisti.

Sino all’ultimo incarico, mai troppo amato, quello di senatore (“in commissione parlavo dell’agricoltura e dell’uso delle acque, ma quelli non capivano e mi guardavano strano”).

“Lo dico subito, non sono un comunista pentito. Per noi che abbiamo lavorato per la democrazia e per migliorare le condizioni di vita della nostra gente non c’è nulla di cui pentirsi. Certo, sento il peso del fallimento di un’esperienza alla quale abbiamo guardato tutti con speranza. Ho avuto spesso la tentazione di rompere, tanti sono stati i segnali che ci dicevano che quella dell’Unione Sovietica era un’esperienza fallita sul piano della democrazia e dell’idea che avevamo noi, in Italia, del socialismo.

Sono rimasto sempre dentro il Pci. Se fossi uscito non mi avrebbero capito, parlo dei militanti delle sezioni, di tutti quei straordinari compagni che hanno costruito un partito così grande. Se fossi uscito sarei stato prigioniero della mia solitudine, di un impegno di semplice testimonianza.” Ilvano Rasimelli ci riporta alle questioni del Novecento, vecchi rimpianti, ma anche alle ragioni della sua scelta di vita. “I pentimenti sono metastorici, io ho vissuto, onestamente, nella storia”.

Veniamo all’oggi, e cioè all’altro ieri. Com’era Perugia nel dopoguerra e nel ’52 quando si inizia la sua esperienza di amministratore in Comune?

“Un disastro, non c’era nulla, le strade, l’acqua che era razionata, lo stato miserevole delle scuole. Sa come facevo il mio lavoro da assessore? andavo con loro, con gli operai. Per dirigere non servono gli ordini, si deve convincere. Ho visto gente lavorare giorno e notte nella neve, e io stavo li, sino alla conclusione dei lavo ri. Questo problema dell’acquedotto, l’obiettivo di portare l’acqua nelle case, ti consentiva di mobilitare la gente. Non è che ci facessimo tanti scrupoli. Abbiamo tagliato strade provinciali senza permesso, di notte, attuato captazioni abusive di sorgenti, ne abbiamo combinate di tutti i colori. Ma io dovevo risolvere i problemi. lo pensavo, sinceramente, che di fronte all’interesse pubblico, i regolamenti, le questioni formali, venissero dopo. Quando affrontammo il problema dell’ospedale psichiatrico ed abbattemmo il muro di via XIV settembre liberando persone segregate in stanze immonde, andai prima dal Procuratore della Repubblica e lo avvisai. Gli dissi: “guardi che io domani violo la legge e butto le camicie di forza, l’elettrochoc, la detenzione coatta”. Valle a dire oggi queste cose agli amministratori, a tutti quei dirigenti che fanno regolamenti assurdi su ogni dettaglio della vita della gente. Magari colpiscono chi ha aperto una finestrella a Montemalbe e poi permettono a certi costruttori, come a San Marco, di fare centinaia di appartamenti senza chiedersi quali saranno gli effetti che questa cementificazione avrà sulla viabilità. Sa che penso? che in questo nostro paese vince sempre il più forte”. C’era più libertà una volta? “Sì, si. La democrazia che c’è stata in Italia tra il ’44 e il ’75 è irripetibile. Oggi l’ultimo burocrate di un comune ti fa diventare matto e magari non è neanche colpa sua. E’ la stupidità che diventa potere, altro che democrazia”. Non è colpa di tutti, della vostra generazione e di quella successiva se Perugia non è venuta come si sperava? Non c’è stata, tutto sommato, una continuità non sempre virtuosa? “Guardi, questo è il piano regolatore di Ponte San Giovanni e questa è la foto aerea di oggi. C’è qualcosa che corrisponde? dove stanno le zo ne di rispetto, il verde lungo il Tevere? La grande occasione è stata persa nel ’67 con la legge ponte sull’urbanistica. Il Comune aveva il potere e la possibilità di costruire una città diversa. Non è andata così. E’ come se si fosse sparato su una parete con un fucile a palettoni. Piano di Massiano e la valle del Genna sono state saturate di cemento, e così via Palermo o via Sicilia. Qualcuno si è chiesto dove sarebbero finite le auto che tutti questi insediamenti avrebbero attirato? era inevitabile? non credo”,

Cosa pensa del centro storico?

“Ci ho sofferto. Ricordo quando si andava in via Mazzini e poi in corso Vannucci. Si incontrava tutti, non c’era bisogno del telefonino. Un giorno, era un pomeriggio di agosto, mi sono messo a girare e non vedevo un perugino. Solo stranieri, studenti, qualche turista…E poi i negozi, che fine hanno fatto i negozi? C’è rimasto Fagioli, Forghieri e poi basta, il resto appartiene a tutte queste catene di abbigliamento, tutte uguali”.

E’ la modernità.

“Va bene, ma poi ho scoperto che gli affitti dei negozi sono cresciuti m modo esponenziale ed anche in modo strano, perché questi sono prezzi fuori mercato. Che succede? e chi paga? Io, ogni volta che andavo da Servadio gli facevo i complimenti per quel pavimento in rovere, uno spettacolo. Adesso c’è la plastica. Sembra che in Comune consentano tutto. Quando vado da Carla Schucani, da Sandri, gli dico: “tenga duro perché se va via pure lei, è finita”.

Non è successo solo a Perugia.

“Lo so, i centri storici dell’Umbria, anche quelli più piccoli, sono irriconoscibili, non ci sono più gli abitanti”.

Allora?

“A Perugia il piano regolatore del ’62 era uno strumento che guardava al centro storico in modo del tutto diverso, non so, magari non ce l’avremmo fatta, ma avevamo un disegno, un’idea”.

Quale idea?

“Intanto, dicevamo, affrettiamo la costruzione del nuovo carcere e su quell’area costruiamo il nuovo centro direzionale della città, in centro. Sull’acropoli restano e si sviluppano tutti i servizi amministrativi, il Comune, la Provincia, gli uffici regionali e poi la parte nord è dell’università, la cittadella degli studi. Questa era la scelta, invece si è andati alla cieca”.

Quando ha presentato il suo libro alla Vaccara eravate in quattro attorno ad un tavolo, Ricordo quattro coetanei nati agli inizi degli anni venti.

“Siamo i quattro sopravvissuti, eravamo insieme nella segreteria del movimento giovanile del Pci. Lello Rossi, Lanfranco Mencaroni, Francesco Innamorati ed io”.

E’ stata la Resistenza l’esperienza più importante della sua vita?

“In montagna non c’era niente da inventare. Si doveva stare li, era facile, era una scelta obbligata. Le cose difficili sono venute dopo”.

E’ stato fortunato ad avere un maestro di vita come Aldo Capitini…

“Ero figlio della cultura artigiana di Perugia, con Capitini ho scoperto un altro mondo, ma ero anche amico di famiglia. Quando veniva a cena a casa nostra mia madre si spezzava in due perché Aldo era vegetariano. Quando mi sentivo solo, salivo le scale del Comune e ne uscivo più ricco. C’era sempre cosi tanto da imparare da una persona come lui. Gli devo molto, il suo era un modello culturale che prima non conoscevo. Penso alla non violenza. Andai a trovarlo quando scendemmo a Perugia, dalle montagne, alla vigilia della liberazione. Eravamo armati, avevamo usato le armi. Poi ho capito il valore della non violenza, ho scoperto che è la strada di una politica nuova, attuabile”.

E’ contento che quella scritta Palazzo della Provincia – stia ancora lì dopo quarant’anni, in piazza Italia?

“Molto. Una volta si chiamava Palazzo del Governo, ma la proprietà era della Provincia, così un giorno feci una delibera che stabiliva il cambiamento del nome. Era un documento un po’ críptico, così il Prefetto non capì ed approvò. Questa cosa c’è solo a Perugia. Ho tanta paura che ci rimettono il vecchio nome…”