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Da “Valigia Blu”. Hamas-Israele: la guerra e la disinformazione

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È un periodo davvero difficile. Difficile informarsi, essere certi di ottenere una informazione corretta. Difficile reggere il peso di realtà così dolorose, complesse, complicate… La pandemia, l’invasione russa su larga scala dell’Ucraina e ora l’orrore dell’attacco terroristico di Hamas che ha fatto strage di civili israeliani, molti dei quali impegnati per la pace e per i diritti dei palestinesi, ha preso in ostaggio donne, anziani, bambini. Hamas si è reso colpevole di uccisioni brutali, inumane, efferate.

Hamas va condannata senza se e senza ma.

Israele ha tutto il diritto di difendere il suo popolo ma deve farlo “nel rispetto del diritto internazionale, compresa la protezione dei civili”. La risposta israeliana a questo indescrivibile attacco terroristico che ha fatto oltre 1.400 vittime (ricordiamo che oltre 200 civili sono tenuti in ostaggio tra cui donne, anziani e bambini) è stata finora feroce e ha fatto già moltissime vittime fra i civili.

La giornalista Barbara Serra ha scritto: «I titoli impressi nella mia mente sono: “La più grande perdita di vite umane dall’Olocausto” e “A più di un milione di palestinesi è stato detto che hanno 24 ore per evacuare. L’ONU afferma che l’ordine è impossibile”. La ferocia dell’attacco omicida di Hamas contro i civili israeliani è inquietante. Il prezzo pagato dai civili di Gaza è terrificante. Le tensioni si riverberano in tutto il mondo. È difficile trovare le parole giuste, ma il terrore e la disperazione sono ciò che sento nel mio cuore».

Anche informarsi è diventato un “campo di battaglia”. Siamo sopraffatti dal rumore, da una mole di informazioni impossibile da gestire, da una soffocante cappa di opinioni superflue che oscura le voci che realmente dovremmo ascoltare.

In questo contesto ancora di più sento l’esigenza di tenermi lontana da dinamiche – ormai ampiamente sistemiche – dei media e delle discussioni pubbliche sui social che inseguono prevalentemente risposte immediate e dove la verifica anziché essere il cuore stesso del processo giornalistico diventa secondaria, quasi opzionale. In una spirale sempre più difficile da contrastare, dove tutto si riduce a “Da che parte stai?”, dove i pregiudizi e le posizioni preconcette finiscono per essere le lenti attraverso cui si processa l’informazione e la realtà. “Ammettere la complessità – scrive ancora Barbara Serra riferendosi al conflitto in corso – non vuol dire giustificare lo spargimento di sangue”.

Mentre tutto intorno corre a velocità nocive divorando senso, buon senso e la complessità appunto, è un atto politico la scelta di aspettare, osservare, stare paradossalmente fermi. Perché quello che sembra notizia confermata oggi, potrebbe probabilmente essere sconfessato o messo fortemente in dubbio domani. Perché le nostre posizioni personali possono inficiare pesantemente il lavoro di ricostruzione e verifica. Perché in un ecosistema mediatico e una realtà così complessa succedono tante cose anche nel giro di pochi minuti. Non condividere le prime versioni di una notizia diventa un atto di cura e rispetto verso i fatti, verso le persone coinvolte in prima persona, verso le comunità che frequentiamo nei mondi digitali. Non affrettarsi a sposare conclusioni o interpretazioni di fatti avvenuti, ma ancora avvolti da incertezze e confusione, o parole pronunciate da politici e rappresentanti istituzionali, solo perché confermerebbero le nostre posizioni, visioni, paure è un atto giornalistico e politico allo stesso tempo. Che protegge prima di tutto noi stessi da manipolazioni, distorsioni operate in buona o cattiva fede. Una cautela che ci permette tra l’altro di non farci strumento di propaganda.

Sull’esplosione all’ospedale Al-Ahli prima o poi sapremo cosa è successo. Ma per tutta la durata di questo conflitto, dovremo convivere con il fatto che molto di ciò che apprendiamo nell’immediato su quello che accade in una guerra è sbagliato o fuorviante. Fa parte della natura stessa dei conflitti. In questo in particolare abbiamo due ordini di problemi: sia Hamas che Israele fanno propaganda fuorviante sulle loro operazioni militari, i giornalisti hanno un accesso molto limitato sul campo: solo un esiguo numero di reporter era a Gaza prima del 7 ottobre, il loro lavoro in questo momento è estremamente difficile e rischioso e già più di 20 giornalisti hanno perso la vita nelle prime due settimane di guerra. Il governo israeliano impedisce ai giornalisti di entrare a Gaza.

Personalmente ho adottato un atteggiamento molto cauto, continuo ad avere come punto di riferimento alcuni media internazionali che sebbene abbiano sbagliato nelle prime ore di un evento alcune ricostruzioni, come avvenuto per l’esplosione all’ospedale Al-Ahli a Gaza, hanno avuto la capacità di correggersi velocemente, c’è chi si è scusato con i lettori (come il New York Times e la BBC) e di fare un gran lavoro investigativo successivamente. Il mio rimane un approccio scettico ma che si sforza di non cedere al cinismo. Non tutti sono compromessi, non tutti sono servi della propaganda, non sono tutti uguali.

Arianna Ciccone