Home Argomenti Arte e Cultura Cose scritte fra noi “Il Manoscritto di Palazzo Corgna”

Cose scritte fra noi “Il Manoscritto di Palazzo Corgna”

Condividi

Testo di Nunzio Dell’Annunziata, fotografie di Fabio Palmieri

Questo che vi accingete a leggere è un testo rinvenuto da un operaio durante i lavori di restauro del Palazzo Della Corgna. Con pochi euro acquistai il polveroso manoscritto che altrimenti sarebbe andato smarrito; appassionandomi poi alla storia che narrava ho pensato di divulgarlo e questo anche per rispettare in un certo senso la volontà dell’autore. Certo non ho avuto modo di verificare l’autenticità dei fatti narrati ma…considerando il periodo storico al quale fa riferimento trovo tutto assolutamente verosimile…

Per rendere il testo più scorrevole, l’ho trascritto eliminando quelli che oggi sono considerati arcaismi formali e grammaticali. Questo che segue è quanto.

foto palmieri 2

Mi trovo rinchiuso da anni, tra le vessazioni e le torture di sordi aguzzini, in questo palazzo; ho tentato di spiegare, provare, la mia innocenza dichiarando che, mai in vita mia, commisi peccato alcuno né contro gli uomini né contro Dio. Nessuno vuole credermi, affido la verità a questi fogli che un soldato della guarnigione, forse toccato da pietà, dopo infinite preghiere mi ha portato con inchiostro e penna; poi nasconderò dietro una pietra del muro, faticosamente estratta, questo mio resoconto, sperando che almeno in futuro la verità possa riabilitare il nome della mia famiglia che attualmente viene ricoperto di offese e vergogna.

Tutto cominciò quando il barone Bonifazzi di Perugia mi offrì in affitto una sua casa padronale di Castel della Pieve ad un prezzo di estremo favore; dato che era in un punto incantevole del paese e per dimensione meglio si confaceva alle mie comodità, accettai. Erano tredici camere poste nella parte più vecchia e alta dei borghi, comprendeva due piani, un sottotetto e la cantina; intorno non si ergeva altra costruzione adiacente e le più prossime arrivavano con la punta dei comignoli alcuni metri sotto al piano terra di quella che sarebbe stata la mia nuova casa.

Quando ne presi possesso, solo una camera da letto e poco altro era stato pulito, il resto sonnecchiava sotto una spessa coltre di polvere. Affittando la casa prendevo a servizio una domestica che già viveva nella casa stessa, avendo lavorato per i precedenti affittuari: certi duchi di Spoleto, rimanendo poi, con mansioni di “custode”, durante il periodo nel quale la casa era rimasta disabitata, si chiamava Flora. Quando la incontrai mi assicurò che in breve tempo tutto sarebbe stato ripulito alla perfezione.

foto palmieri 3

Certamente era una donna un po’ strana, non aveva famiglia, ma poi non si spaventava a rimanere da sola in quella casa tanto grande? A parte questo, era bella, bella ed enigmatica: due occhi scuri, anzi neri, brillanti, espressivi, selvaggi, volitivi; i lineamenti del viso erano marcati ma sempre femminei, il corpo snello ma vigoroso era piacevolmente addolcito da curve che tuttavia non risultavano molto arrotondate o abbondanti. La sua bellezza però era appena appena velata da un’ombra di malinconia, una nota di strana tristezza aleggiava sulla sua fronte, la si percepiva appena e poi sfuggiva portando con se il mistero di quello spirito selvaggio, primordiale, saturo di una femminilità sibillina.

Un giorno Flora era uscita, curiosavo per casa e mi spinsi su nelle soffitte in cerca di oggetti obsoleti, mobili, o altro vecchiume perché provavo molto diletto ad aprire un occhio sul passato, ancorché prossimo e scoprirvi piccoli mondi dimenticati. Per caso aprii una porta, era quella delle due camere di Flora che in effetti mi aveva detto si trovavano nelle soffitte di sinistra rispetto alle scale di accesso. Ma cosa mai non c’era in quella specie di antro: bottiglie di ogni forma e dimensione, barattoli, vasetti di vetro, di terracotta, scatoline, cassettine e recipienti di ogni sorta, tutto allineato su mensole grezze e polverose. Poi in un angolo del tavolo addossato alla parete c’era un piccolo alambicco anch’esso polveroso e qua e là svariati moccoli di candela spenti ancora incollati con la cera stessa; c’era anche un grosso tomo che non presentava più gli spigoli, evidentemente consunti dall’uso e dal tempo oppure rosicchiati dai topi. Quello che però colpiva più di tutto era un minuscolo braciere, un tripode piccolissimo quasi nascosto tra una cassapanca e la parete, da esso si levava una lingua di fuoco mentre che ardeva una incomprensibile materia. Era una fiammella sinistra che induceva pensieri di maledizioni, sortilegi e dava presentimento di sciagure; rimasi attonito, con gli occhi che brillavano a quel debole, sinistro bagliore. Non toccai nulla richiusi la porta e tornai giù, del resto le donne del popolo indulgevano spesso in credenze, superstizioni.

Una mattina ero nello studio, il sole si insinuava da una finestra e dolcemente investiva la scrivania dove alcuni registri e scartoffie vari, mi tenevano concentrato sui conti: avevo una piccola rendita, mi permetteva di vivere agiatamente senza dover lavorare, ma bisognava stare attenti al bilancio per evitare inutili spese che potevano intaccare la sostanza creandomi problemi. Ad un tratto udii un rumore di ruote, come di qualche calesse sull’acciottolato che conduceva alla casa, tesi l’orecchio e alla porta di servizio udii bussare tre colpi lievi; poco dopo lo scatto della serratura indicava che Flora era andata ad aprire; uscii nel corridoio e tesi l’orecchio per capire chi fosse e cosa cercasse colui che aveva bussato: un indistinto bisbiglio mi giunse ma non fu sufficiente a capire una frase che svelasse il mistero.

Nelle settimane che seguirono altre persone, furtivamente , fecero visita alla mia domestica, sempre cercando accesso alla porta di servizio, ciò testimoniava che questi incontri erano una consuetudine; all’inizio sospettai che Flora vendesse il proprio corpo, ma poi accertai di essermi sbagliato, perché notai che spesso venivano in casa donne e a volte accompagnavano fanciulli. Interrogai Flora a riguardo, ma minimizzò: “Non compio niente di male in casa sua, se viene qualcuno a cercarmi è per chiedere qualche rimedio a piccoli mali, raffreddori, allergie; cose di questo tipo, comunque se il signore lo desidera, immediatamente interrompo l’attività”. Queste furono le parole della donna alla quale risposi: “A tutto ciò che è lecito, non ho nulla in contrario: puoi continuare la tua attività, se conosci erbe, medicamenti e altro, aiuta pure la povera gente a risolvere piccoli problemi di salute”.

Devo riconoscere che più tempo passava e più mi sentivo attratto da Flora, la sua carnagione, i suoi sguardi taglienti e quei capelli, che con impertinenza, le ricadevano sugli occhi da dove schizzavano immediatamente scacciati da un rapido, quasi stizzoso movimento della testa. Io la desideravo, nel tempo che trascorreva avevo colto in lei dei movimenti, un’armonia di forme e una vitalità veramente straordinarie; niente a che vedere con la pallida e scialba carnagione delle donne dell’alta società. Anche il carattere, energico e risolutivo, era affascinante in lei e si contrapponeva con fierezza, all’indole remissiva e spesso subordinata, della maggior parte delle donne che avevo frequentato nella mia vita. Quando Flora si muoveva sembrava il mare in burrasca, le sue braccia, per eseguire i movimenti, erano onde che fendevano l’aria e il lavoro che si svolgeva sotto le sue mani era la risacca ostinata quando tormenta rami e tronchi a riva, instancabile, caparbia, forte.

Comunque anche lei accettava la mia corte, me ne accorgevo dai movimenti che esaltavano la femminilità allorquando si accorgeva di essere nella mia visuale, erano movimenti istintivi e per questo di maggior effetto; finché una sera la luna calante ci sorprese nello stesso letto della mia camera, dove giungevano i profumi primaverili e si stemperavano e si confondevano nell’umidità della notte che sopraggiungeva. Al fianco di Flora, sotto le sue carezze un po’ rudi, mi si schiuse un mondo straordinario di sensazioni; in contrapposizione al suo carattere forte, mostrava un’insospettata fragilità nell’amore, questo la rendeva più fascinosa e desiderabile; lei così fiera e risoluta, non aveva remore a mostrare lati teneri e a volte infantili che manifestava in una richiesta di carezze protettive che facevano anche la mia felicità. Questo stare vicino a Flora mi fece meglio comprendere le misteriose pratiche che officiava; quando l’avevo interrogata, sulle visite che riceveva, in effetti non mi aveva mentito. In seguito potei appurare che la sua conoscenza empirica di erbe, bacche, radici, era veramente efficace per piccoli malanni e per i più svariati disturbi; io stesso, via via, trovai giovamento dalle sue cure: una volta, ad esempio, mentre cavalcavo tra i boschi, mi ferii alla spalla con uno spuntone di quercia, trascurai la ferita e questa cominciò ad infettarsi. Flora bollì delle erbe, con l’acqua di cottura deterse la parte suppurata, dopo applicò un unguento anch’esso di origine vegetale e devo dire che nel giro di pochi giorni l’infezione passò e la lacerazione si avviò verso la cicatrizzazione.

La vita insieme a Flora filava per il meglio tuttavia il suo comportamento generale, non so se per caso o volutamente, era sempre leggermente permeato da un enigmatico fatalismo che sfociava in una sorta di mistero; da questo alone, intimamente connesso al suo modo di essere, traeva origine la diffidenza che alcuni nutrivano nei suoi confronti. Di questo ero sicuro, del resto anche il clima religioso induceva la gente, ma soprattutto il clero, ad osteggiare e perfino perseguitare, qualsiasi atteggiamento che potesse somigliare a pratiche magiche; le persone che si rivolgevano a Flora infatti, tendevano a muoversi con una certa circospezione, proprio per quella diffusa paura di incorrere in richiami se non a perquisizioni e accuse, da parte dei più alti organi ecclesiastici, sempre pronti a raccogliere e premiare la delazione.

I gendarmi arrivarono all’alba, mentre ancora dormivamo, io ero immobilizzato da una spada puntata alla gola, Flora si copriva il seno con un lembo del lenzuolo, i suoi occhi selvaggi brillavano di una luce resa tagliente dall’odio verso i suoi accusatori; anche i miei occhi ruotavano lentamente per la stanza con sprezzo, cadendo ora su uno, ora su altri di quei prepotenti.

Essi, aiutandosi con calci e armi, rovistarono per tutta la camera in cerca di qualche prova che testimoniasse i nostri presunti riti magici; ma non trovando niente di compromettente, fummo quasi trascinati verso le camere di Flora: lì tutto fu distrutto perseguendo un ostinato quanto inutile soqquadro. Le mensole venivano scorse con la lama delle spade, tutto rovinava a terra tra polvere e cocci; i gendarmi eccitati dall’azione si infuriavano e con maggiore violenza trattavano Flora intimandole di confessare le sue colpe: “Parla maledetta, dove nascondi le prove dei tuoi peccati!”

“Lasciatemi” rispondeva la sventurata “non ho fatto niente. Vigliacchi, vi strapperei gli occhi se potessi. Lasciatemi andare!”

Fummo portati via in malo modo, nemmeno l’onta delle catene ci fu risparmiata, giunti qui al palazzo ci divisero in due celle. Il giorno dopo iniziarono gli interrogatori; erano sempre presenti delle autorità ecclesiastiche, vestivano una tunica bianca, non si poteva guardarli nel viso per mezzo di un cappuccio sul quale erano praticati due fori all’altezza degli occhi. L’interrogatorio si svolgeva attraverso una serie di domande feroci, urlate, di una brutalità incalzante; la bocca che inquisiva, sbraitava spesso a pochi centimetri dal nostro viso, si coglieva un alito di bile dalle rapide folate che arrivavano al naso. Cercavano una confessione, sarebbe bastato che uno di noi avesse parlato, anche se solo per mettere fine a quel supplizio, a loro non interessava, anche poco, quasi niente bastava come appiglio per la condanna. Alla fine ci scaraventavano nelle rispettive celle in compagnia dei topi. Gli interrogatori si susseguirono fino a che sentimmo il nostro essere annullato, distrutto, eravamo ridotti a due larve nel giro di pochi giorni. Dopo, per un breve periodo, almeno io fui lasciato in cella abbandonato alla mia disperazione; per Flora invece tutto precipitò fino a quando una mattina, alle prime luci dell’alba, udii il chiavistello stridere nelle guide alla porta della sua cella. La vidi passare tra due gendarmi, avanzava sulle proprie gambe, piena di lividi; gli occhi però non erano spenti dalla sconfitta, anzi erano iniettati di sangue, sembravano mandare bagliori mentre da un lato all’altro, voltava la testa con scatti animaleschi. Appena fuori della prigione, sfinita dall’isteria, le udii pronunciare una falsa confessione, urlata in faccia ai suoi carnefici: “Siiii! Sono una stregaaaa!! Ho conosciuto tutti i diavoli dell’inferno! Di notte venivano a letto con me. Ho fatto i malefici a tutti quelli che conosco e presto moriranno. Volete bruciarmi? Fate pure, canaglie!”

Io sentivo, nell’umido della cella, e sapevo che si stava commettendo la più grave delle ingiustizie. Flora era innocente ed innocente ero anch’io. Le cose che la perseguitata urlava erano un delirio. Le invettive che pronunciava erano solo un’accusa verso quelle persone che avevano trasformato la fede in Dio nel più sacrilego oscurantismo: cieco, sordo, inutile, crudele.

Mentre gli urli proseguivano, qualche riverbero sbiadito del fuoco che era stato appiccato, scivolò sulle pareti della mia cella, aveva la stessa tinta malata della fiammella che avevo visto innalzarsi dal minuscolo tripode qualche tempo prima.

Quando la vampa aumentò, le grida della moritura lacerarono l’aria, i timpani e l’anima di ogni essere vivente che ne fu investito; mentre scrivo ancora rimbombano nella parte più profonda di me raggelandomi il sangue, sembravano provenissero veramente dall’inferno, tanto erano sature di un odio ancestrale scagliato addosso a coloro che rubavano la vita, dalle carni guizzanti, che cedevano all’imperiosità sorda e cieca del fuoco. Immaginai le fiamme che lambivano il corpo sventurato di Flora; come il terrore si fosse impadronito di lei alle prime bruciature, poveretta, sentire sulla propria pelle le bolle sfrigolanti che scoppiavano, poi, nelle narici, il fumo acre della legna e della carne bruciata, infine la vampa impietosa nella quale i bei capelli neri cedevano al fuoco mentre i sensi si spegnevano, in sintonia con una sillabata rapsodia protratta ancora qualche attimo prima della morte.

foto palmieri 4

Vi ho raccontato la mia storia che è pura verità, testimone Dio e le mura di questo palazzo. Forse mi aspetta la stessa sorte di Flora, ma quando? Non ho più subito interrogatori, sono qui rinchiuso senza conforto alcuno, senza che la verità venga accertata. Non so se sono passati mesi oppure anni da quando sono prigioniero, a giudicare dalla barba che pende sul mio viso, ritengo siano trascorsi anni. Ora nascondo il manoscritto, se come spero verrà trovato, si conoscerà la storia e la verità potrà essere ristabilita.

Affido la mia anima e quella di Flora a Dio, il manoscritto al fato.

Non posso essere preciso ma credo che siamo nell’anno del Signore 1496.

Non provo odio per nessuno, nemmeno per i miei carnefici.

In fede F. B.

 

  Nunzio Dell’Annunziata