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Per fortuna che c’è Riccardo Lorenzetti. “Ci si chiudeva in caso con la radio. Vedevamo le partite contro il muro”

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Siamo da sempre ammiratori dei temi e della scrittura di Riccardo Lorenzetti, che seguiamo costantemente nei suoi social. Ogni tanto, ne rubiamo una pillola preziosa. Come questa. (g.f)
“Sembra solo ieri che la domenica… Ci si chiudeva in casa con la radio… Vedevamo le partite contro il muro, non allo stadio”.
Nessuno, più di Lucio Dalla, è riuscito a condensare in così poche parole il senso di “Tutto il calcio minuto per minuto”, che proprio il 10 gennaio di sessantatre anni fa cominciava la sua mirabolante avventura radiofonica. Una canzone un po’ “claustrofobica”, ma che rende bene l’idea di cosa abbia rappresentato la radio per tutti gli appassionati di calcio: che spesso si sostituiva alla televisione per una questione pratica (non esistevano né Sky né Dazn né tutto il resto) ma anche per un valore emozionale.
Perché ascoltare la partita alla radio, a quel tempo, voleva dire entrare in una dimensione extrasensoriale: dove trovava spazio la fantasia e l’immaginazione, e si era presi per mano dal talento dei radiocronisti dell’epoca, che raggiungeva talvolta altezze vertiginose.
Cose rimaste leggendarie, come la finale di ritorno della Coppa Uefa del 77, ed il ricordo nitido di una partita che dentro quella radiolina a transistor diventa drammatica, poi epica e infine addirittura insopportabile. Con Furino, Cuccureddu e Benetti che sembravano i poveretti della carovana sempre sul punto di soccombere ai Sioux, e soprattutto con Enrico Ameri: che, quella sera, diventò Michelangelo… Trasformando Atletico Bilbao-Juventus in una specie di Cappella Sistina della radiocronaca, per dire la perfezione.
Perché alla radio il gesto diventava più ricco, più affascinante, e persino più misterioso. Come il leggendario “uomo solo al comando” delle tappe alpine, ma anche il più banale “…Ecco Mazzola che manovra all’altezza dell’asse mediana del terreno”, che trasformava in chissà cosa un innocuo disimpegno a centrocampo.
Mazzola dell’Inter, ovviamente. O, meglio ancora, “dell’ Internazionale”. Perché alla radio piaceva essere un po’ ridondanti, con quel lessico talvolta barocco che però non stuccava mai, anzi diventava addirittura linguaggio corrente: come gli spalti “gremiti ai limiti della capienza”, il terreno di giuoco “in perfette condizioni” e l’arbitro Lo Bello “coadiuvato dai guardalinee, signori Tizio e Caio” (e il verbo “coadiuvare” non lo conosceva nessuno). Oppure le serate di coppa, dove non mancava mai il “risultato da inquadrare nell’ottica dei 180 minuti”.
Ameri era poderoso, Ciotti, inconfondibile (siamo cresciuti con il classico “Scusa Enrico… Vai Sandro”), ma avevamo imparato a distinguere anche il garbo di Provenzali, la precisione di Foglianese e l’impeto travolgente di Ezio Luzzi, che irrompeva nel bel mezzo di uno Juve-Milan per descrivere fin troppo minuziosamente il pareggio della Cavese a San Benedetto del Tronto.
E infine Roberto Bortoluzzi, da studio, dopo l’inconfondibile musichetta della sigla: che andava subito al sodo, aprendo con il classico “Gentili ascoltatori buongiorno, ecco i campi collegati…” , per poi terminare quel pomeriggio infinito con la “Ditta Stock di Trieste”: “per brindare, se la vostra squadra ha vinto. E per consolarvi, se ha perso, o pareggiato”.
Altri tempi.