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Riccardo Lorenzetti “Era una luce, il “Professore”.

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“Era una luce, il “Professore”. E quando le luci si spengono, viene il buio.

Se non il buio, che è una metafora fin troppo cruda (e il Professore sarebbe il primo a non gradirla) quella luce tenue, soffusa e un po’ azzurrina che arriva in Valdorcia dopo il tramonto, e che i nostri vecchi chiamavano “brollume”.

Quando siamo in ottobre-novembre, e resistono quelle belle giornate di sole che profumano di campi coltrati, e di natura che che si sta fermando. E allora ci si prepara pigramente per la cena, con il chiacchiericcio della televisione in sottofondo (nel suo caso, probabilmente, un disco di musica classica), nelle case di paese fatte di pietre, sassi e tutto ciò che veniva buono per murare, quando eravamo poveri. Le stanze piccole, le scale, gli archi in mattoncini, le finestre e le persiane di legno, i gerani sul davanzale.

La casa del Professore, a Monticchiello, aveva anche un angolino con i pennelli, i colori per dipingere e un cavalletto, sul quale campeggiava un quadro non ancora terminato.

E poi pile di libri, disposti disordinatamente: saggi su Brecht, cataloghi di mostre di pittura, il Sesto Caio Baccelli, a testimoniare una cultura ricca, vasta e articolata. E una curiosità intellettuale quasi bambina.

Di questo nostro microcosmo, lui, e il suo “Teatro Povero” sono stati una delle entità più autorevoli, e più immediatamente riconoscibili.

Quelli che hanno dato forma, e voce, ad un mondo al suo “brollume”, fatto di memoria e di ricordi, e ne hanno custodito quel senso di “comunità”, evidenziando le contraddizioni del tempo che passa.

E che ha trasformato questa terra, che era una terra di fatica e sudore, in una specie di cartolina illustrata. E questa gente, che era povera e spiantata e si è ritrovata ricca, forse un po’ troppo in fretta.

Era questo, probabilmente, il senso più autentico del suo messaggio artistico.

Per noi, che ogni agosto andavamo a sentircelo raccontare, in quella forma originale che all’inizio era una specie di “vegliatura”, e poi si è evoluta ad “autodramma”, in una veste a volte fin troppo “intellettuale”, almeno per i miei gusti; che sfornava spettacoli alti, criptici e spesso ripetitivi, e tuttavia con la forza magnetica di una calamita.

Perché si spegnevano le luci e arrivava, potentissima, la magia del teatro: e sopra quel palco vedevo il mio vecchio nonno che accendeva i fuochi per San Giovanni e i miei cugini, che giocavano nell’aia insieme alle galline e ai maiali. E il mio povero zio, che impazzì letteralmente di gioia quando vide all’opera la prima mietilega.

Era questo il mondo che ci raccontavano ogni estate il Professor Andrea Cresti, e i suoi attori del “Tepotratos”: rievocando posti dal nome variopinto, come Celamonti, La Foce, Palazzo Massaini o Monterongriffoli. Gente che si chiamava Dino, Remo e Alighiero, e che abitava poderi misteriosi: San Pietro al Nocio, Il Fornacino di Sopra, Verdemezzo, il Casino della Madonna.

E la sua Monticchiello, naturalmente, che stava idealmente al centro di questo mondo al “brollume”, e che forniva panorami mozzafiato, come quello appena fuori la porta di Sant’Agata, dove si vede Pienza e un pezzo di Valdorcia: che una Valdorcia più Valdorcia di quell’affaccio lì, è difficile trovarla.

E dove si vede anche il “Don Vasco Neri”.

“Avete il camposportivo più bello del mondo”, gli dissi.

Il Professore sgranò i suoi occhi piccoli, che divennero due fessure… Quell’affermazione improvvisa lo aveva un po’ inorgoglito, e un po’ colto di sorpresa. Gli ci vollero una decina di secondi per ricomporsi, poi guardò verso il basso, a studiare meglio la personalità di quel campetto brullo, quasi insignificante, che a fondovalle spezzava la dolce monotonia delle colline.

Fece una mezza smorfia, e scrollò la testa: “No, via… Codesta è un’esagerazione.”

Ti sia lieve la terra.

Riccardo Lorenzetti