Home Argomenti Politica Il Presidente Grasso a Città della Pieve. Le immagini, alcune parole.

Il Presidente Grasso a Città della Pieve. Le immagini, alcune parole.

Condividi

Un pomeriggio intenso quello vissuto da Città della Pieve, lunedì 10, con la visita del Presidente del Senato Pietro Grasso. L’occasione è stata fornita dalla presentazione del suo libro “Storie di sangue, amici e fantasmi”.

In una Sala Grande di Palazzo della Corgna sono intervenuti oltre al Sindaco Fausto Scricciolo, l’assessore Carmine Pugliese e i giornalisti Alvaro Fiorucci e Elda Cannarsa.

Della lunga ed importante attività di magistrato che il libro racconta ci piace riportare un brano che è apparso anche sul Corriere della Sera, quando lo ha presentato in occasione della Fiera del Libro di Torino. E’ una lettera postuma all’amico Falcone. Sono parole che si commentano da sole, (g.f)

“Caro Giovanni, scriverti non è facile, mettere ordine nei tanti pensieri e nelle innumerevoli cose che ho da dirti. C’è quel lieve imbarazzo tipico di quando due vecchi amici, abituati a condividere la quotidianità, fatta di cose grandi e piccole, si rincontrano dopo essersi persi di vista per qualche anno: basta un saluto, uno sguardo, un abbraccio per ritrovare subito l’antica confidenza.

In realtà, in questi venticinque anni non c’è stato giorno in cui non ti abbia parlato, in cui non ti abbia chiesto consiglio, in cui non abbia raccontato a un interlocutore un aneddoto o un episodio su di te. A volte me lo chiedo, a volte me lo fanno notare: perché parli sempre di lui? Perché racconti continuamente le grandi sfide che ha affrontato ma anche il suo spirito ironico e le sue piccole debolezze?

La verità è che mi manchi moltissimo. Prima di essere Falcone, il mito, il simbolo che viene ricordato e commemorato da milioni di italiani con rispetto, amore e riconoscenza, a volte anche con qualche ipocrisia , per me eri soprattutto Giovanni, all’inizio il collega, poi, con il passare dei giorni, soprattutto l’amico. (…)

Nei momenti di maggiore sconforto mi trovo a pensare a un paradosso: per portare a termine quel Maxiprocesso da cui tutto è cominciato, abbiamo dovuto superare centinaia di ostacoli. Come giudice a latere ho dovuto inventarmi soluzioni innovative per problemi mai presentatisi prima, anche banali di procedura: i verbali d’udienza da redigere in tempo reale, l’appello nominativo degli imputati da trasformare in un registro delle presenze, l’impossibile lettura degli atti, la fretta di scrivere da solo le settemila pagine di sentenza prima che scadessero i termini, e tanti altri. Ci siamo riusciti, anche grazie all’aiuto di tutti gli organi dello Stato, finalmente uniti per un risultato comune: il ministero di Grazia e giustizia, come si chiamava allora, il Parlamento con la legge Mancino-Violante, l’impegno straordinario di tanti funzionari e uomini comuni ci ha portato a quel monumento giuridico. Ma se solo uno di quegli ostacoli ci avesse fermato, che sarebbe successo? Se per un qualsiasi motivo fossero riusciti a fermarci, se avessimo fallito, mi chiedo, tu, Paolo e tanti altri sareste forse ancora vivi.

In quei momenti al senso di colpa per essere sopravvissuto — nonostante il fallito attentato ai miei danni a Monreale, un altro «colpettino» partorito dalla folle mente di Riina per il suo ricatto allo Stato — si aggiunge quello di essere riuscito a portare a termine quel processo.

Eppure, alla fine ho trovato una risposta a questo dramma interiore. Se il Maxiprocesso fosse saltato, sono certo, avremmo continuato la nostra battaglia. Non ci saremmo fermati. Altri processi erano andati in fumo, altre volte il risultato che sembrava vicino si era allontanato. Avremmo ripreso con ancora più forza, avremmo approfondito le indagini, cercato riscontri, sentito collaboratori e testimoni, costruito un altro processo e continuato, sotto la tua guida, fino a farcela. Perché tu eri così. Perché chi ti stava intorno e condivideva i tuoi valori era così. Perché nonostante la consapevolezza dei rischi che correvamo, degli interessi che stavamo toccando, della rabbia che cresceva fino a esplodere, non ci saremmo tirati indietro.

Ne sono certo, Giovanni: pur sapendo di morire, rifaresti tutto quello che hai fatto. Il tuo credo era racchiuso in una frase di John Fitzgerald Kennedy, che ripetevi sempre ai tuoi nipoti e ai ragazzi che incontravi: «Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana».

Mi è rimasto in tasca da allora il tuo accendino d’argento, quello che mi hai dato il giorno che hai deciso di smettere di fumare, sorridendo e specificando: «Guarda che è solo un prestito, se ricomincio me lo devi restituire». Lo tengo sempre con me, e quando sono in dubbio su cosa fare mi basta toccarlo per sentire la tua forza e il tuo consiglio, e non avere alcuna incertezza sulla decisione da prendere.

In un’intervista che mi capita di rivedere ogni tanto — non dura nemmeno un minuto — a un certo punto ti chiedono chi te lo fa fare, tu fai quel tuo sorriso carico di sottintesi, e rispondi: «Soltanto lo spirito di servizio». Ma alla domanda successiva — «Ha mai avuto la tentazione di abbandonare questa lotta?» — diventi improvvisamente serio e replichi perentorio: «No, mai». In quelle due risposte è racchiuso il sentimento più alto che prova chi ha giurato sulla Costituzione e tiene fede fino alla fine a quel giuramento: il senso dello Stato.

In questa lettera ho cercato di evitarti delusioni, ma non posso nasconderti che è sempre più difficile spiegare cosa significhi «il senso dello Stato» come lo abbiamo inteso noi. Dal 1992 a oggi sono stati molti i colpi inferti a questo nobile sentimento di appartenenza a un ideale comune: centinaia di indagini e processi, migliaia di articoli, innumerevoli ore di programmi televisivi hanno smascherato punti di riferimento che sembravano intoccabili, dalla politica alla magistratura, dal giornalismo all’amministrazione pubblica, dalla società civile all’impresa privata. Molti che sembravano servitori dello Stato o uomini integerrimi si sono rivelati per quel che erano: semplici profittatori. È difficile quindi per me spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni, con quale forza e con quale coraggio hai continuato sino alla fine nel tuo impegno. È difficile raccontare che entravi ogni mattina in una Procura piena di veleni contro di te, e che lì, come se niente fosse, portavi avanti il tuo lavoro. È difficile far comprendere lo spirito con il quale aiutasti Antonino Meli, che ti era stato preferito come capo dell’ufficio istruzione di Palermo, a smembrare, seguendo una filosofia opposta alla tua, le indagini di mafia affidando a ciascuno un piccolo pezzo di un puzzle molto più grande, perché per te era il tuo superiore e ti sentivi in dovere di aiutarlo in ogni caso. È difficilissimo far capire lo stoicismo con il quale hai sopportato le invidie e le calunnie per essere andato a lavorare al ministero; ti accusavano di fuggire dalla trincea, ma in quei pochi mesi sei riuscito a disegnare una strategia politico-giudiziaria finalmente efficace contro la mafia.

A distanza di così tanti anni però, Giovanni, il tuo esempio è un simbolo inscalfibile. Da procuratore nazionale prima e da presidente del Senato ora, ho visitato numerosi Paesi, e in molti ho trovato una traccia del rispetto con il quale sei ricordato. In un prato fuori Praga c’è un memoriale con il tuo nome. In un’aula di udienza per i processi contro la criminalità organizzata a Sarajevo ho scoperto una targa intestata a te. Nel giardino della scuola dell’Fbi a Quantico c’è il tuo busto sopra una colonna spezzata. Nel quartier generale di Washington un’intera scalinata è dedicata a te: alle pareti ci sono tue foto e articoli di giornali e in alto, cosa rarissima in America, la bandiera italiana intrecciata a quella a stelle e strisce. Quando sono andato in visita, c’era il tuo amico Louis Freeh, che ogni anno, il 23 maggio, prende un volo intercontinentale per venire a Palermo

Sono certo che lo sai cosa succede a Palermo ogni anno. Quell’aula bunker che tu avevi tenacemente voluto per farci celebrare il Maxiprocesso in Sicilia smette per un giorno i suoi panni di tribunale e diventa il luogo della commemorazione di tutte le vittime di mafia. Si riempie di studenti di ogni età.

Quelle gabbie piene di decine di mafiosi si trasformano in gallerie di disegni dei bambini di tutta Italia. Per un giorno, l’antimafia della giustizia lascia il passo all’antimafia della speranza. Le ragazze e i ragazzi intervengono, cantano, recitano per te, per Paolo e per tutti i caduti della nostra guerra. È un momento magico, al quale non sono mai mancato, che viene preparato nelle classi per un anno intero, grazie all’impegno di migliaia di docenti e a quello di tua sorella Maria che, infaticabile, gira per le scuole a raccontare di te.

È un impegno strano, il nostro: contribuiamo a costruire il tuo mito e al contempo proviamo a demitizzare il simbolo che sei diventato. Ci piacerebbe far capire agli studenti che sei stato un fuoriclasse nel tuo lavoro, un uomo che non temeva nessuna minaccia, ma anche una persona come tutti: siamo convinti che non ti si debba cucire addosso l’abito dell’eroe, perché porterebbe a crederti inarrivabile, ma quello del cittadino modello, come possiamo esserlo tutti. Solo così infatti il tuo esempio può continuare nell’impegno quotidiano di ciascuno di noi.”

Le foto dell’articolo sono tratte dalla pagina fb di Città della Pieve Viva