ARCHIVIO DEL CORRIERE PIEVESE
25 NOVEMBRE 2016
La pizza è nata a Napoli. Certo i napoletani sono stati i primi a capire che quel meraviglioso frutto color oro proveniente dalle Americhe, non era velenoso e cattivo. Scoprirono inoltre che cotto e abbinato alle “focacce”, il pomodoro, trasformavano queste ultime in una speciale festa per gli occhi, il palato e lo stomaco. Con gli spaghetti fecero lo stesso strepitoso connubio.
Fatta questa doverosa premessa mi chiedo, “ma chi ha inventato la forma di pasta che i napoletani hanno trasformato in quella che oggi chiamano in tutto il mondo pizza?” Probabilmente quel disco fatto con svariate farine, impastate con l’acqua e appiattito onde facilitarne la cottura, è stato inventato nella notte dei tempi, in innumerevoli parti del mondo scollegate tra loro. Quello è l’inizio. In seguito a seconda del territorio quel primigenio alimento è andato ad arricchirsi di ingredienti e sapori a testimonianza delle abitudini, usi ed esigenze dei popoli. In alcune zone dell’Umbria non è andata esattamente così. Quel disco di pasta tanto manomesso e personalizzato da tutti, non ha subito variazioni nei secoli. Ha conservato la sua identità, specificità, il suo fascino e la sua semplicissima perfezione. Però non confondiamo la torta al testo con il “bico” di Piazze. Quest’ultimo infatti viene cotto nel forno, mentre la torta al testo, come suggerisce il nome, sul “testo.” Inoltre il bico viene preparato con lievito, mentre la torta al testo, è solo acqua, farina, un pizzico di bicarbonato e uno di sale. Questo pane antichissimo ci riporta veramente alle radici della storia alimentare di tutti noi italiani e non. Infatti io credo che prima ancora che avessero il pane lievitato, i nostri antenati abbiano mangiato questa “schiacciata” che è si poi tramandata ed è arrivata a noi intatta nella tradizione umbra. Conservando il profumo, la croccante bontà e tutto il fascino delle cose semplici. E come potrebbe essere altrimenti se i suoi componenti sono tre, numero perfetto, e rappresentano altrettanti elementi arcaici e sacri della natura: terra, acqua e fuoco. La terra che ci nutre, madre per antonomasia, l’acqua essenza stessa della vita e fonte purificatrice, il fuoco simbolo di forza, di luce, di calore e di interazione con il sacro e il mistero. Scaturito da tanta atavica perfezione, poteva mai questo “pane” subire cambiamenti che avrebbero nuociuto alla sua essenza e al suo simbolismo?
La torta al testo viene consumata farcita dai più svariati ingredienti: salumi, carni, verdure, salsiccia, formaggi. Questa versatilità la rende attualissima e strepitosa. Per uno spuntino o un antipasto è perfetta, anche per un buffet, farcita e ridotta a spicchi soddisfa qualsiasi esigenza alimentare. Però per una questione direi romantica, prima che salutistica, a me piace mangiarne tra gli altri gusti, anche uno spicchio con le verdure. Meglio se erbette di campo ripassate in padella. Sì perchè sono sicuro che i nostri antenati, in prevalenza, è così che la consumavano. E se per il tempo di uno spuntino, ritorno a quel passato che la torta al testo vuole testimoniarmi, sento di fare un vero viaggio nella storia. Ritorno a quando mangiare voleva dire aver impastato la farina, averla cotta sulla tegola arroventata e averla consumata con le erbe trovate nella terra di nessuno e di tutti. Niente supermercati, frigoriferi, sacchetti della spesa, file alla cassa, finti sconti e famigerati tre per due. No, non voglio ritornare indietro per carità si sta molto meglio oggi, checché se ne dica. Voglio solo gustare un cibo antico e in quella emozione sensoriale acciuffare la soddisfazione provata da chi in tempi meno fortunati dei nostri, a quel sapore, abbinava la contentezza di aver mangiato placando i morsi della fame. E poi il sorriso con il quale ha ricambiato il sorriso dei suoi figli che addentavano il cibo che sembrava sempre sfuggente, inarrivabile in quella scarsità che durava una vita.
Anni addietro, verso Magione c’era un chioschetto dove una donna di mezza età, mora con dei lineamenti ben marcati nel viso, con temperamento e gesti sicuri stendeva la pasta e l’adagiava sul “testo” bello caldo. Cotta da un lato rigirava quella “luna” mostrandone il lato nascosto che presentava nel profumo intenso, le prime zone marroncine. Poi appena pronta la spaccava e tra un vago spiraliforme vapore, la farciva secondo le richieste. Io spesso mi fermavo, a quel chiosco, mi affascinava il cibo semplice, sapido, che veniva preparato con sacra scrupolosità e venduto a buon mercato. Ricordo che con mia moglie ci facevamo incartare gli spicchi di torta dai quali fuoriusciva l’appetitoso ripieno e andavamo a mangiare a S. Feliciano, in riva al lago. Ne è passato di tempo…Mi è riaffiorato questo ricordo, l’ho scritto perché penso che tantissimi rammenteranno la sosta in questo punto di ristoro così caratteristico. Ora, il “chiosco” si è trasformato in un ambiente enorme con una continua ressa di affamati che scelgono tra una marea di piatti. Alla torta però sono rimasti fedeli. E’ sempre buona e rispettosa della tradizione. La gran folla è un po’ segno dei tempi…ma io sto invecchiando e benché comprenda lo scorrere degli anni e le rinnovate esigenze delle nuove generazioni, mi piace ricordare quando mangiavo la torta a S. Feliciano e tutto doveva ancora succedere…almeno per me. Una volta voglio confondermi a quel manipolo di scalmanati che reclamano il cibo, se esco vivo dalla ressa col mio spicchio di torta alle verdure nelle mani, voglio andare a S. Feliciano e mangiare guardando il lago… tanto mi basta per un po’ di felicità.
Nunzio Dell’Annunziata