Pubblichiamo una intervista fatta al dottor Domenico Bartolini, nel febbraio del 2009, in occasione di un “Laboratorio di Ricerca sul Filo della Memoria” realizzato dalla Libera Università di Città della Pieve che aveva come tema “Progetto di autobiografia della Città. Il lavoro e l’impresa nel 900 a Città della Pieve” coordinato da Giovanni Fanfano.
L’intervista molto interessante per i ricordi del dottore sulla medicina di base dagli inizi degli anni ’60 del secolo scorso e sulla vita a Città della Pieve, è stata condotta dai partecipanti al Laboratorio.
Una traccia di lavoro parte comunque dalla presentazione minima del soggetto, del personaggio intervistato. In questo caso dalla presentazione di Domenico Bartolini. Chi è, come arriva a Città della Pieve, la prima impressione, cominciamo dall’incipit.
Sono arrivato qui a Città della Pieve nel febbraio 1961, avendo vinto un concorso per medico condotto con incarico di ufficiale sanitario .
Quanti anni aveva?
32 anni. Siamo nel febbraio 1961.si parte dal fatto che verso le 10 di sera, di febbraio, so di aver vinto il concorso a Città della Pieve. Stavo a Perugia, Ospedale di Perugia, stavo facendo la specializzazione. Mi venne la curiosità di vedere dove era questa Città della Pieve. Perché in bicicletta avevo fatto il giro dell’Umbria , ma tutto dalla parte di là. A Piegaro finiva per me l’Umbria.
A bordo di un Topolino C, di terza-quarta mano, vengo a Città della Pieve. Arrivo fino a Tavernelle e tutto bello, tutto liscio . A Tavernelle mi accorgo che l’asfalto finisce e comincia la strada bianca, con le buche. Più andavo avanti e più mi veniva in mente non so se te la ricordi, quella famosa storia delle carte geografiche, dove c’era l’Africa, c’era scritto “hinc sunt leones”.
Più andavo avanti e più dicevo “ ma sono matto”. Faccio tutte le curve di Piegaro, arrivo quassù, era già buio parecchio, era freddo, i locali tutti chiusi. Mi infilo giù verso l’Orfanatrofio, arrivai alle scalette di San Pietro, non mi ricordavo bene come ci ero arrivato. Vennero a salvarmi due carabinieri, quelli col moschetto, la bicicletta e la divisa grigio-verde.
I quali, vedono questa macchina ferma, si avvicinano. Io dico subito “ i documenti sono questi. Avete una sigaretta da darmi? Perché io riparto di corsa e qui non mi vedono più.”
Dopo la difficoltà stava nel disdire, nel rinunciare . E dire a chi mi aveva aiutato, i vari primari, che non venivo più a Città della Pieve, dove c’era un ospedale. Perché la mia era l’idea di andare a fare il medico condotto, ma dove c’era un ospedale. Per cui mi levavo di torno, per esperienze vissute prima, la ostetricia, traumatologia, ed altro che sarebbero state fatte dall’ospedale.
Poi anche perché sicuramente anche una crescita professionale a contatto con l’ospedale, è una cosa importante. Invece medico condotto sperduto in un paese dove sei solo,lì resti..Varie storie insomma. Seppi poi, per il mio pallino di non perdere i contatti con Perugia e l’ospedale, che questa strada l’avrebbero asfaltata.
Per esserne certo andai addirittura dall’impresa Fioroni che aveva in appalto dei lavori e chiesi se veramente questa strada si faceva o erano chiacchiere. Mi ricordo che il ragioniere non alzò nemmeno la testa e mi disse
“La Pievaiola? Guardi, di subappalti non ne abbiamo.”
“A me non interessa il subappalto.”
“Allora stia tranquillo che la strada la consegnamo l’anno prossimo, fatta.”
Così venni a Città della Pieve
Adesso mi chiederete l’impressione che ebbi di questo paese. Brutta . La Pieve era questa. L’illuminazione quasi zero. Filo da palazzo a palazzo con quelle lampade storiche che torneranno di moda. Le Monache erano buio.
Questo palazzo, Palazzo della Corgna, era transennato davanti perché non passassero sotto i cornicioni per non pigliarsi in testa un pezzo di cornicione che cadeva. Dove c’è la farmacia, altro palazzo chiuso, steccato. L’attuale comune, steccato; porte sbarrate, tavole, sempre per non far passare le persone sotto i cornicioni; questa era la storia di Città della Pieve in quegli anni. Quattro non negozi, ma botteghe. Certo l’unico faro di una certa modernità era il bar dell’angolo oggi Bar Matucci, che era gestito con la mentalità del proprietario di allora che veniva un po’ dalla città e aveva una certa esperienza . Quindi questa era la sensazione.
Ambulatorio comunale, dato in comodato gratuito ai medici condotti, l’ambulatorio che ho ereditato era in corso Vannucci, il numero non me lo ricordo, non due stanze ma due buchi, senza servizi igienici . La sala d’aspetto, che chiamarla sala è ridicolo, ammucchiata lì. Buio dalla mattina alla sera , neon eccetera. Questa era la condizione oggettiva.
Però nessuno aveva da ridire su queste condizioni, semplicemente perché di meglio non c’era.
Allora il supporto sanitario non era fatto di forma, ma più di sostanza, per cui la gente veniva lì e il medico era un sacrificato dalla mattina alla sera come lo erano i pazienti che purtroppo facevano la fila in una sala d’aspetto inadeguata, ammucchiati. Questa era la storia.
Le visite si facevano nelle case in paese e quasi nessuna (io ero anche ufficiale sanitario) era a norma perché non avevano servizi igienici nel 50% dei casi.A piano terra, c’era la scala, avevano ricavato un buco,un pozzo nero o qualcosa del genere. L’acqua ce ne era poca e facevamo 400 metri cubi di acqua al giorno, che doveva servire per tutta la popolazione del centro e un pochino della periferia.
Quanti medici eravate?
Eravamo due nel paese, quattro nel comune. C’era anche la condotta di Moiano, la condotta di Salci. I liberi professionisti erano Cortellini e Costantini
Prima di me c’era il dottor Carnevali. Quando venni qui fu lui che mi convinse a venire alla Pieve perché ci conoscevamo da Perugia. Quindi d’accordo che poi avremmo lavorato insieme con maggiore libertà.
Il dottor Carnevali una volta ebbe un piccolo problema, una defaillance in una visita in campagna sotto il sole e decise di rinunciare a fare il medico condotto e andò a fare un concorso per direttore sanitario. Vinse Foligno e poi diventò direttore sanitario del Policlinico di Perugia. A Moiano c’era Dionisie a Salci c’era Pelliccia.
Torniamo indietro un attimo: perché medico? Perché Bartolini sceglie di diventare medico?
Ma Bartolini diventa medico perché avendo fatto il liceo classico, fatto anche bene, con docenti validi, viene contagiato da una certa euforia. Voleva fare lettere classiche, senonché a Perugia non c’era lettere classiche. Dire alla mia famiglia che volevo andare a studiare a Firenze, era assolutamente improponibile, sarebbe stata una prova del fatto che non avevo voglia di far niente, perché andare a Firenze e chiedere a casa mi che mi stipendiassero per stare a Firenze, era solo assurdo. Allora, intanto perché forse nella medicina vedevo allora qualche cosa che poteva riscattare il desiderio di classicità, chiamiamola così, la missione, ma più che altro lo stesso linguaggio della medicina che era mutuato tutto dalla lingua greca e latina. Insomma ho cercato di giustificare in qualche modo una certa aridità degli studi iniziali, dopodiché entrato di più nel mondo della medicina, non ho dimenticato che la medicina si fa con i malati. A volte ho avuto istintivamente il desiderio di non mettere tra me e il malato, la scienza medica ma un sano empirismo che è quello che poi permette al medico, di fare il medico . Che però impegna il medico allo spasimo, perché se fai del sano empirismo, devi uscire un po’ dalle regole scientifiche e se fai l’errore non ti si perdona.
Non avevamo l’ecografia, avevamo un radiologo.. Come vedi salto di palo in frasca. Il contesto in cui si operava allora, era questo. Intanto erano molte le visite a domicilio. La viabilità dei dintorni era massacrante. Appena cominciavano le prime piogge, con la macchina non andavi a fare le visite fuori. Né le strade, dal centro, sbucavano a Ponticelli come adesso; ma se andavi giù e la strada diventava più fangosa di quello che avevi previsto, non tornavi su. A meno che il contadino non attaccasse i buoi.
Sempre con la Topolino?
No. Avevo cambiato perché qui la Topolino era inaccettabile. Detto tra noi, possedevo una spider bellina. Ce l’avevo già, ma la tenevo in garage perché non si poteva utilizzare. Anche perché allontanarsi dalla Pieve con la spider, per un medico condotto,era rischiosissimo.
Era a rischio di denuncia perché era uno scandalo . Se un paziente avesse cercato il proprio medico e qualcuno lo avesse visto allontanarsi con la spider, apriti cielo.
Mio padre era impiegato civile di pubblica sicurezza, stava all’ufficio passaporti a Perugia. Eravamo 5 figli, io il più grande quindi non c’era niente da scialacquare.
Venivamo dalla Romagna, dove i miei avevano una certa proprietà che hanno venduto facendo l’affare del secolo, subito prima della guerra. Quei soldi, che non erano pochi, con la svalutazione erano finiti proprio. Mio padre non aveva certo la stoffa dell’imprenditore. Andò così, insomma.
Ecco, io volevo fare Lettere, poi non è che mi sono pentito di aver fatto medicina. Ho cercato di mettere forse istintivamente quel tanto di cultura.
Questa impostazione, era una impostazione sua o era di tutta la categoria dei medici condotti?
Ecco, specifico. Avevo, non faccio nomi, due colleghi che venivano dagli studi scientifici. Si andava all’università a fare medicina solo o con la maturità classica o con quella scientifica. Io ho avuto due colleghi stimatissimi e amici per la pelle, che però venivano da un’altra formazione, si vedeva un pochino la differenza.
Erano più pragmatici, non so come dire, forse più obiettivi. Io poi li stimavo per questo. Due più due faceva quasi sempre, non dico quattro, perché per i medici di una volta, due più due non faceva quattro sempre.
Perché non avevi l’ecografia, non avevi la radiografia, non avevi l’elettrocardiogramma. Poi ci torno sull’argomento perché mi preme far capire quale è stata la sofferenza e l’impegno dei medici e quale è stata la tolleranza e soprattutto la fiducia che ai medici hanno dato i pazienti di allora. Adesso probabilmente non sarebbe così.
Se ci vogliamo divertire a raccontare qualche episodio personale di qualche notte insonne, qualcosa è anche divertente perché un certo senso dell’humor, mi è rimasto. Qualche volta mi lasciavo andare a qualche battuta che forse chi stava dall’altra parte del tavolo e aveva qualche dolore addosso, forse non l’avrà manco apprezzata.
La viabilità ti metteva in croce, perché andare a fare una visita in campagna significava mettersi gli stivali da ottobre-novembre fino a marzo; perché molta parte della strada si faceva solo a piedi. Si lasciava la macchina dove si era sicuri di tornare indietro e poi si andava a piedi .Si andava di notte.
Quando sono nate le condotte, molto prima che io facessi il medico, il medico condotto era stipendiato dal Comune e doveva assistere tutti gratuitamente salvo certe categorie, tipo i proprietari. Doveva assistere i pazienti dell’ambito territoriale della sua condotta.
Però, quando sono venuto io, questa territorialità non esisteva più perché c’erano la mutua, l’Inam. Allora praticamente il medico condotto aveva uno stipendio quasi irrisorio, perché doveva garantire questa figura sempre presente eccetera, ma in realtà con quello che guadagnava, è chiaro che non avrebbe vissuto. Allora gli era consentito di avere i mutuati i quali potevano sconfinare dalla condotta e sceglievano il medico che volevano. Quindi non erano obbligati per condotta. L’obbligo credo ci fosse per comune.
Quando è venuto nel ’61 alla Pieve quanti mutuati aveva?
Io non avevo niente, avevo forse ereditato qualcosa da Carnevali. Però era libera, la scelta. Sarò partito da 5/600 e piano piano e con orgoglio posso dire che il massimale per i medici condotti era 1800. In realtà ho chiuso a 1780; quindi me li sono tirati dietro tutti, fino alla fine.
E dicevo: la viabilità era una cosa pesante, l’altra era l’orario di lavoro; non esisteva orario di lavoro; il medico era per legge e per convenzione; sempre disponibile 24 ore su 24; domenica e festivi compresi.
Aveva diritto, come medico condotto, ad un mese di ferie (che non prendeva mai); ma doveva comunque garantire l’assistenza ai propri mutuati. A Città della Pieve, era un’oasi perché, incredibile dictu, questi medici, condotti e non, eravamo così affiatati che 10 anni prima che venisse la guardia medica, abbiamo istituito una guardia medica da noi.
Per cui due medici rimanevano e gli altri quattro erano liberi di muoversi il sabato e la domenica; e le ferie le facevamo tra noi.
Addirittura qui eravamo arrivati a fare il consulto gratuito tra noi.
Cioè, io avevo un problema su una signora con cui capivo che c’era qualcosa e dicevo, alzavo il telefono e parlavo con il dottor Pelliccia Sentiamo che dice lui.
Oppure telefonavo io” Mimmo, ci vieni con me a vedere il malato che c’è qualcosa che non mi quadra; per sapere che ne pensi.”
Questa era la collaborazione che avevamo noi. Quindi amicizia, serietà e sicurezza per i pazienti i quali sapevano che se mancavo io , avevano la possibilità di andare da un altro medico senza quelle litigiosità tra medici che esistevano nei paesi intorno.
Lì i medici non prendevano un giorno di ferie, per paura che l’altro collega gli portasse via i mutuati. Quindi questa era l’oasi della Pieve..
Chi era che poteva accedere alla mutua ? Tutti e indistintamente? Tra i cittadini.
Allora c’era il famoso elenco dei poveri. L’ambito territoriale consisteva in questo. Ogni anno si rifaceva una specie di elenco di quelli che, non avendo assistenza mutualistica, avevano diritto ad un’assistenza che veniva erogata dal comune.
Ad esempio, i contadini erano assistiti come poveri?
No no, avevano la mutua. I poveri erano quelli che , operai, perdevano il lavoro , avevano l’assistenza per sei mesi dall’Inam. Poi cessava quest’assistenza, allora entravano a far parte dell’elenco dei poveri .Poi ritrovavano il lavoro e venivano ricancellati e ritornavano ad essere mutuati.
E quei pazienti che non avevano diritto all’assistenza mutualistica, erano a carico dei medici condotti e non dei professionisti.
Come era l’ospedale della Pieve?
Aspetta. Io ho bisogno di parlare a ruota libera.
L’ospedale. Il motivo per cui io ho scelto , nel concorso, Città della Pieve, era proprio questo: perché delle 6-7 condotte che c’erano, era l’unica condotta che aveva un ospedale. A parte che era il centro più importante, ma aveva l’ospedale.
E questo significava per un medico, che aveva fatto precedenti esperienze, di sostituzioni ecc, sapere che cosa significhi un ospedale. Significava intanto avere un alleggerimento del carico di responsabilità professionali; una possibilità di crescita per contatti che in qualche modo poteva avere. Certo, questo era il principio. In realtà non è stato un principio che è stato tradito, perché in realtà qui il prof Serafini , il dottor Bonucci, il dottor Fracasso e gli infermieri, Alberto, Mario, erano figure di riferimento per il medico che stava fuori.
Io poi quando avevo tempo, andavo giù, facevo qualcosa di aiuto anche in ospedale, magari perché avevo dei pazienti lì. Quando il rianimatore, il dottor Bonucci doveva mantenere la respirazione manualmente, con una specie di pompa manuale, che se smettevi di pompare, quello smetteva di respirare, quando si svegliavano lentamente, si facevano due braccia così. Allora un aiuto a pompare si andava giù a darglielo perché in realtà aveva bisogno. Però insomma, l’ambiente diciamo che era piuttosto sereno. In realtà c’era una specie di collaborazione anche sul piano psicologico, tra medico e paziente. Perché il medico non si tirava indietro ed il paziente forse capiva istintivamente le difficoltà del medico. Quindi alla fine di un caso si faceva una cosa comune. Non c’era distacco. Questo era l’ospedale: l’ospedale aveva un primario di chirurgia e medicina. Di entrambe, allora era Serafini. Erano tre. Bonucci, che faceva l’assistente, con incarico di anestesista e di laboratorio. Il dottor Fracasso, faceva la sala operatoria. Facevano tutto; anche loro erano disponibili, facevano le guardie mediche una notte per uno. Una notte Bonucci, una notte Fracasso. E il giorno lavoravano.
Per la storia, quindi il primo primario medico è stato Chiavaro, alla Pieve?
Il primo primario medico da concorso, ufficiale, è stato Chiavaro.
Prima c’erano stati degli incarichi, dei consulenti. Poi il concorso è andato a Chiavaro.
E quindi questa è la storia; per cui questi facevano una notte per uno; poi il giorno lavoravano.
Allora noi, quando dovevamo fare dei ricoveri, in particolare notturni, qualche volta ci facevamo un po’ scrupolo. Il malato ce lo portavamo noi, in ospedale; e poi magari toccava chiamare il medico che dormiva. Per dire “Guarda , io ho il malato così e così; che dici, io farei questo; puoi venire giù?”
Nell’intero ospedale, c’erano tre medici; consulenti poco o niente, perché veniva un cardiologo ogni 15 giorni, due ore il sabato; il prof Solinas che purtroppo è morto l’altro giorno.
Veniva un radiologo una volta alla settimana, poi due, da Firenze. Però veniva una volta alla settimana. Col treno a Chiusi. L’infermiere Alberto l’andava a prendere con la Vespa, lo portava su e certo non è che potessimo scialare in elettrocardiogrammi, potessimo scialare in radiografie, perché gli abitanti erano quanti sono adesso.
Ed erano dislocati nelle campagne, per cui le prestazioni c’erano ed erano queste. E’ chiaro, chi suppliva all’assenza del cardiologo che veniva ogni 15 giorni, e che non faceva interventi di urgenza.L’ospedale non disponeva di un elettrocardiografo; anche perché poi alla fine, forse, non c’era neppure chi lo sapesse leggere, l’elettrocardiogramma.
Allora suppliva il buonsenso del medico , la pazienza, l’esperienza, tutto; e la fortuna, qualche volta, del paziente.
Questa era un po’ la concezione della medicina. Era fatta di segni; era fatta del reperimento di piccoli indizi che poi ti facevano crescere l’esperienza; perché tu ti ricordavi di avere visto che una volta quello era andata così, allora ti almanaccavi, certo il tempo per studiare sui libri non ce ne era molto.
Gli aggiornamenti?
Ma gli aggiornamenti, qualcosa si faceva perché c’era l’ospedale .Ma poi non erano così pregnanti ,così insistenti, gli aggiornamenti erano basati sull’esperienza diretta.
Non è che poi la medicina facesse passi così usa e getta. Perché adesso la medicina fa esperienza usa e getta, allora l’usa e getta esisteva poco,era più sul vissuto.
Però era un’esperienza che alla fine facevi sul campo di battaglia.
Quando poi è venuta a disposizione l’ecografia che ha cambiato completamente tutto.
Però ho sempre detto che la mia curiosità deve essere quella di ipotizzare un qualche cosa che poi vado a verificare con lo strumento; poi un bel giorno mi sono anche stancato di dover dipendere, specie per l’ecografia che è una cosa più impegnata e più nuova, dal referto che mi dava lo specialista. Allora mi sono andato a fare un bel corso di ecografista; per cui dopo le leggevo da me e potevo avere il diritto di fare anche qualche contestazione; Però nessuno di noi ha mai rifiutato la novità, l’ha utilizzata non a scopo di alleggerire il proprio lavoro, ma di migliorarlo ed è questo che vedo oggi ancora. Se a casa mia, forse è una cosa che non va detta, dopo quasi 10 anni che non faccio più il medico, vengono quasi tutti i giorni con una telefonata del tipo “ Posso venire un momento,……” sanno benissimo che io non li prendo in cura; ma è la curiosità di sapere dei 100 esami che hanno fatto.. ho fatto questo, mi hanno fatto fare questo va bene, in conclusione questa gamba fammela vedere. Ah, prima la gamba non me l’ha toccata nessuno.
Qui si va dalla Tac, ecc, senza mai che nessuno visiti questa gamba.
I pazienti si lamentano per questo; la medicina di oggi in generale , non ha il contatto diretto.
Ieri uno della tua età , ha la mamma anziana, è venuto da me e mi ha detto “lei deve farmi un grosso favore. Gli ho detto che non le faccio le visite, non mi chiedere.
E lui : non è una visita; la mia mamma è due tre mesi che le ginocchia le fanno male chiede, si è incaponita, vuole essere visitata. Non chiede altro, non la visitano; mi faccia il favore, ci venga e io campo bene.
Alla fine mi sono fatto convincere, sono andato; poi questa donna si era messa sul divano pensando.. E io dico: no no, così le visite non si fanno; via, a letto, per bene, spogliata; adesso piglio il caffè,poi vengo là. Capirai, al settimo cielo.
L’ho presa, poveretta, e gli avrò fatto anche male. Mi ha detto il figlio: una soddisfazione così, adesso sta tranquilla perché finalmente è stata visitata.
Invece il rapporto per intenderci, con il livello superiore, con Perugia e quindi con l’ospedale di Perugia; se ho capito bene, c’era questo ottimo rapporto e ottima integrazione tra il medico condotto, l’ospedale nelle sue diverse funzioni;
All’inizio anche l’infermiere era continuamente in contatto col medico condotto; penso anche per andare a casa . C’erano Alberto, Averino, Guidino; erano questi. Lavoravano mica sai quante ore.
Con Perugia il rapporto era più individuale. Città della Pieve faceva quel che poteva e i malati erano mandati al policlinico di Monteluce.
Qui interveniva poi il rapporto personale del medico con gli specialisti, i primari. Siccome io venivo da lì, avevo studiato lì, ero stato molto tempo dentro l’ospedale, avevo rapporti personali con i vari primari o specialisti. Per cui io il martedì pomeriggio mi sostituiva il dott Pelliccia che io lo ricambiavo in un altro pomeriggio, e io andavo a Perugia. A salutare i miei, all’ospedale, sapevo dove avevo i pazienti e facevo il giro. Per cui attingevo notizie direttamente e certo era l’aggiornamento che tu dici.
Era fatto di questo, era più pratico, non facevamo le tavole rotonde però era diretto, questo rapporto ce lo avevo più personale e l’ho mantenuto per moltissimi anni.
Quando è venuto all’inizio degli anni sessanta alla Pieve, se qualcuno adesso chiedesse quale era il problema sanitario principale. Quale era la questione che dovevate affrontare più di tutti?
Senti, io ti posso raccontare. Dunque io ho fatto la specializzazione in malattie dell’apparato digerente e del fegato. Ma ero anche ufficiale sanitario e quindi recepivo tutte le denunce di malattie infettive .Qui imperversava allora l’epatite B; della C non ne sapevamo niente; la chiamavamo epatite non A e non B :Itterizia. Bene io avevo avuto un primario che ha scritto trattati di medicina e in particolare di patologia. Erano pochissimi che sostenevano l’origine virale dell’epatite B.
Si parlava di tappo di muco che chiudeva lo sbocco della bile e quindi si diventava gialli. In realtà questo primario, il prof Dominici, sosteneva insieme a pochissimi altri, qualche americano, che c’era un’origine virale. Un bel giorno càpito a Perugia, ero da poco alla Pieve. Questo primario mi vede e per un arcano mistero mi piglia a braccetto , lascia il codazzo di visita e mi dice: “lei dove è andato? Mi pare a Città della Pieve “si professore come fa a ricordarselo?” “bene,mi rispose, lei vedrà moltissime epatiti”
Lui era un infettivologo di quelli con le bandierine.
“ e le spiego perché. Perché voi avete Chianciano e a Chianciano si riversa molta gente per fare le cure termali. Perché hanno avuto l’itterizia; cioè hanno avuto l’epatite; il virus; Alloggiano negli alberghi. Le famiglie, le donne di Città della Pieve e dintorni vanno a lavorare a Chianciano . Alcune si immunizzano ma diventano portatrici sane; rientrano in famiglia. La zona Moiano, perché era poi quella terribile.
Non hanno acquedotto, non hanno fognature, allora tornano a casa, sono portatrici di virus, li eliminano con le feci. Dove vanno a finire le feci? In un piccolo pozzo nero; dove va il pozzo nero? A due tre metri di profondità; dove fanno il pozzo per prendere l’acqua e innaffiare l’orto?
Tre metri di profondità più in là. Il ciclo si chiude e questo è. Quindi lei faccia molta attenzione e convinca che se non si fa l’acquedotto e le fognature, l’epatite dilaga. Diversi sono morti, anche soggetti giovani, per la degenerazione, il fegato grasso, epatite fulminante.
Poi abbiamo visto dopo, quando sono venuti fuori i test immunologici anticorpi antiepatite, che hanno confermato tutto questo.
Questo nel corso degli anni è cambiato, io con il sindaco facemmo alcune sedute proprio a Moiano di informazione sanitaria. Ero ufficiale sanitario e Serafini me lo chiese. Allora io tutto questo poi lo spiegai bene, cominciarono a stare più attenti a non innaffiare gli orti eccetera, poi fu fatto l’acquedotto.
Quindi qui alla Pieve c’era il discorso dell’epatite. Poi certo avevamo le altre malattie. Poi la vita media era più breve. La statistica dei tumori non mi sembra che fosse così. Adesso le epatiti sono rare. Abbiamo scoperto poi, facendo queste ricerche, che tantissimi pievesi sono portatori di anticorpi di epatite guarita; non sanno manco di averla avuta.
Quale era il rapporto con l’amministrazione comunale, con le istituzioni?
Ti dirò, a prescindere dal fatto che qui c’era una sede Inam che è quella poi responsabile con i funzionari, con un medico, che stava alla villa che adesso è Le Logge del Perugino, lì c’era questa sede e l’ho trovata lì. Fino a che c’è stata, è stata lì.
Lì c’era un poliambulatorio, veniva qualche specialista ;c’era il dentista Biscarini. C’erano l’otorino, l’oculista. Andavano lì a fare prestazioni, visite.
Mi dicevi dell’amministrazione comunale: il sindaco era, non so se lo sia ancora, responsabile della sanità pubblica.
Tu, quando sei venuto, era Bombagli.
Si. Poi Marino Serafini. il rapporto è sempre stato ottimo, di una fiducia illimitata in quello che facevano i medici ed in particolare l’ufficiale sanitario che per un lungo periodo sono stato io. Certo, l’ufficiale sanitario una volta si mise in testa nella persona del sottoscritto non so per quali motivi contingenti, di dichiarare inabitabile almeno 10 appartamenti. Il sindaco Bombai non mi dette torto, mi lasciò fare la relazione, i proprietari erano in genere emigrati e avevano affittato a parenti e amici questi appartamenti che sennò sarebbero stati chiusi.
Nella convinzione dell’ufficiale sanitario era che se questi li metto alle strette, un bagno lo fanno, un gabinetto lo fanno, l’acqua ce la mettono, la luce pure. Ho fatto la relazione. Il sindaco ha spedito in tutto ai proprietari. La risposta nel 90% dei casi è stata: meno male, così mi mandate via l’inquilino; io chiudo l’appartamento e se ne riparla tra 20 anni quando io vado in pensione, se mi va di ristrutturarlo.
Allora il sindaco mi disse “ caro dottore, li porta a casa sua, tutti questi? Io li mando via, ma dove li portiamo?”
Per cui a quel punto rimase agli atti una bella relazione e finì lì.
Però il rapporto era di estrema correttezza sensibilità. Non c’erano motivi di liti nel contendere.
Invece l’ospedale? Abbiamo parlato dello staff medico; allora dal punto di vista dell’amministrazione, da chi dipendeva l’ospedale? Era la Congregazione?
Sì, perché io ho conosciuto il presidente. Prima di Ivano Dubaldo, c’era Mangiabene, Ermanno.
Il segretario amministrativo era il ragionier Zoli. Avevano una convenzione con l’Inam; per cui per esempio i ricoveri in ospedale , c’era un medico di controllo dell’Inam che andava a vedere i ricoverati e stabiliva quanti giorni dovevano rimanere; poi è chiaro che veniva chiesta una proroga se dovevano rimanere lì.
Per quanti anni ha fatto il medico condotto?
B: Dal ’61 al ’98.
Se chiedessimo una bella soddisfazione riferita a questa esperienza lavorativa che va dal ’61 al 98,come medico condotto, che le viene in mente?
Professionale? Se te la racconto, è così. Il sindaco Bombagli, amico veramente, mi portava a caccia di frodo nella sua nocetta una volta all’anno, lì facevamo colazione, c’era la stufetta, una mattina..
Dove l’aveva?
Verso il cimitero. Aveva tante gabbiette che con l’Ape si partiva, con tutti i richiami. Dovevo aiutarlo a mettere tutti questi richiami, era un lavoro, poi si stava lì 2 o 3 ore, se non si ammazzava quasi niente, la mattina dopo mi vedevo arrivare un bel regalo di uccelletti che lui aveva ammazzato il giorno dopo.
Uno di questi giorni che eravamo stati a caccia, la sera Bombagli mi chiama
Dolore al torace, il cardiologo c’era stato due giorni prima, e io per 10 giorni il cardiologo non ce l’avevo. Allora questo dolore, come interpretarlo? Io abitavo sopra l’Unicredit, c’era la signora Muzi che affittava delle camere e quindi era il secondo o terzo anno che ero alla Pieve. Questo dolore come interpretarlo? Stai lì, cerca il dettaglio, quello quadrava, quello no. Allora vigeva la regola che se tu spostavi un infartuato, anche per mandarlo nell’ospedale più vicino, eri un mascalzone, perché se moriva, era colpa tua che l’avevi mosso.
Quindi l’idea di portarlo in ospedale qui, manco c’era; portarlo a Perugia non passava.
Allora io faccio tutto quello che si poteva fare e poi dopo 2 o 3 ore di assistenza vado a casa, ma con la raccomandazione alla moglie Evelina, che portava sempre scarpe col tacchino a spillo, che se c’era qualcosa, doveva venire ad avvisarmi, immediatamente.
Immaginate come ho dormito io. Immaginatemi lì sulla panca, con la finestra sulla strada.. Come dio vuole, mi addormentai; e siccome il giorno dopo era festa, suonavano le campane e io nel dormiveglia, sento le campane. Mi sveglio e dico” E’ morto Bombagli” Era un incubo. Suona a morto, suona a festa, sono uguali, te lo dico io.
Poi dopo un po’ sento i tacchetti dell’Evelina che passano sotto la finestra, che andava giù al bar. Era presto di mattina. Ecco, viene da me e mi dice che è morto. E adesso?
Mi chiedo se avevo fatto questo e quest’altro. Senonchè i tacchetti si allontanano perché l’Evelina andava ad aprire il bar, abitava lì sotto le torri, ancora, nella casa delle carceri. Era lì che successe. Allora io ripreso, stordito, vado a vedere.
Vado giù, aveva aperto il bar. Possibile che se è morto, apre il bar?
Allora salgo su e cerco di capire come era andata la storia.
Lui che vendeva al bar anche il vino, aveva scaricato il giorno prima 7 o 8 grosse damigiane, prendendole su così. Ecco perché il dolore al torace! In sostanza questo non me lo aveva detto. Io poi non gli ho chiesto cosa aveva fatto, per cui questo dolore fu interpretato come la possibilità di un infarto.
Questo è uno dei fatti che mi è rimasto. In realtà questo è curioso.
E questo mi ha portato a dire al mio successore: guarda che se tu fai il medico qui così e pretendi di andare a casa la sera e di lasciare fuori della porta tutti i problemi, non lo fare questo lavoro. Se non sei disponibile e disposto a questo, cambia, fai un’altra cosa ; fai il medico funzionario; non lo fare questo lavoro
Ti confesso che molte volte è successo che nel dormiveglia la sera poi ripensassi alla cosa e ti veniva il lampo di genio. Porca miseria, ma questa potrebbe essere così, la spiegazione, allora la mattina non vedevi l’ora che si facesse giorno; prendevi la macchina e andavi a rivedere “Dottore, è arrivato a quest’ora?”
“si, tanto andavo a fare una visita”, non era vero niente: andavi lì perché poi dovevi vedere se era vero e poi magari era suggestione notturna .Però ci andavi; “tanto passavo da qui..”
Cosa c’è che oggi vede nell’organizzazione della medicina e che avrebbe voluto avere a quel tempo a parte gli strumenti e le attrezzature
E’ radicalmente cambiato l’approccio del medico alla medicina e al paziente. Probabilmente, se io dovessi ricominciare a fare il medico, sarebbe inevitabile che lo rifarei con lo stesso approccio mentale, con lo stesso rapporto diretto. Certo faticherei meno, sarei più sicuro perché avrei tutti i supporti medici tecnologici attuali. Farei un po’ però anche una rivalutazione della personalità del medico.
Cioè il medico deve avere il coraggio di fare delle ipotesi diagnostiche, maturate sul sistema di interrogare il paziente, capire. Poi dopo farsi la sua idea.
Secondo lei il problema delle dimensioni, aiuta ad avere un rapporto così con il paziente, o è anche un problema di dimensioni? Per esempio se penso a Roma: pensi che sia uguale il problema del medico di base?
Io penso che purtroppo quelli che vivono nei piccoli centri avrebbero la possibilità di avere un rapporto diverso, se non altro logistico, con i propri pazienti. A malincuore dico che probabilmente non sfruttano questo.
E io sento gli amici di Roma, ho mio figlio che sta a Parma, gli amici di Milano, Perugia, il pensiero comune è questo. Non c’è più il rapporto con il medico, perché il medico non alza più il sedere dalla sedia, il medico ti smista via perché ritiene che sia bene fare così. Farti fare la tac, la risonanza e poi il risultato è che alla fine di tutto questo , a cosa devo credere, cosa ne è venuto fuori ? C’è sicuramente un dispendio di energia anche economica notevole. Forse si potrebbe anche risparmiare con un po’ più di rapporto diretto.
Questo lei lo può verificare anche nella richiesta differente, nell’arco degli anni, da parte dei pazienti?
Secondo me le persone non sono molto cambiate. Io facevo sempre l’esempio al mio successore. Faccio un esempio banale.
Quando andavo a sciare, mi ricordo che mi piaceva andare a fare le escursioni. Era la mano del maestro, della guida, l’istruttore che se tu gli davi la mano, te la afferrava e ti faceva saltare il fosso e tu non avevi via di uscita e saltavi. Perché lui ti tirava. Se avessi trovato una mano così, ciondoloni, io non mi ci appoggiavo .Avrei avuto paura di cadere nel fosso. Ma era lui con me e lì stava la differenza. Io dicevo ai miei sentite, il pulman lo guido io, le porte sono sempre aperte, chi vuole salire, sale, chi vuole scendere, scende. Però lo guido io. Poi in fondo aperto alla discussione col paziente. Le famose ricette indotte dallo specialista. Io sono rimasto forse l’ultimo dei vecchi medici, a lavorare con i nuovi, con i giovani; in questo mi hanno seguito.
Avevamo specialisti con farmaci ritenuti indispensabili, nomino la calcitonina, nomino questi farmaci qui, costosissimi, che li segnavano a gogò. Facevano la prima ricetta, la ripetizione, perché la cura durava 3 mesi, dovevamo essere noi a ripeterla.
E un bel giorno, io mi sono rifiutato, ho detto ai vari colleghi, sentite, voi avete famiglia e un futuro davanti, quindi non potete permettervi di scontentare magari i vostri pazienti, io me lo posso permettere, per cui io non prescrivo quelle ricette , non le ricopio, quelle ricette che non ritengo. Non lo faccio; se voi volete farlo e qualche paziente mio passa a voi, non pensiate che io mi offenda, sono contentissimo che avvenga così, però non lo ritengo giusto.
Risposta dei medici: tu vai avanti che noi ti seguiamo.
E abbiamo scalzato via due o tre specialisti di quelli che smaccatamente ci facevano fare questo che poi ricadevano sui nostri budget; perché poi alla fine eravamo noi che ci contendiamo i costi. Allora un mio mutuato costava magari il 20% in più dell’assistito di un altro medico.
Noi abbiamo avuto a Città della Pieve un budget sempre il più basso quasi della provincia. Appunto perché c’era un accordo tra medici e colleghi e non ci facevamo le scarpe sulla base della ricetta per accontentare il paziente. Ma questo poi ha ripagato perché c’era una stima, una fiducia dei pazienti. Io mi sono visto regalare un pacchetto di caffè, dopo 2 anni e mezzo che a una paziente avevo rifiutato queste ricette per me inutili; e le avevo detto, guardi, non si faccia scrupoli, cambi medico; così il medico gliele segnerà. Dopo 2 anni me la vedo comparire alla porta con un pacchetto. Mi ha lasciato questo pacchetto lì, io dico: che devo fare? Lei, niente, prenda il caffè perché so che le piace, perché per due anni non mi ha fatto prendere una medicina che adesso è risultata inutile perché la televisione ieri sera ha detto che è inutile. Ma lei non aveva cambiato medico? No .Non me la sono sentita. Però aveva fatto 2 anni senza. Ecco una di quelle cose che può appagare. Allora 2 anni senza medicine, sapendo che andando dall’altro medico, forse le avrebbe prescritte. Ma erano inutili.
Lei dottore per 40 circa ha fatto il medico della condotta ma anche il medico delle mutue; quindi faceva anche certificati per assenze dovute a malattia. In questo periodo, quali difficoltà?
Il rapporto non era molto facile; però ti dirò una cosa: che era difficile che il paziente mollasse il proprio medico solo perché il proprio medico non gli aveva concesso il certificato. Facevo tesoro di qualche malumore. Il malumore una volta venne da un infermiere dell’ospedale, perché riteneva che io non agissi secondo giustizia.
Nel senso che io davo per la stessa forma magari influenzale, statisticamente a qualcuno 10 giorni e a un altro 5. Allora capii una cosa, avevo ragione da vendere.
Dicevo, vieni qua e mettiti seduto. Tu fai l’infermiere d’ospedale, il portantino, lavori al caldo e non è detto che poi ti ammazzi di lavoro; perché poi se non te la senti, ti metti seduto e i colleghi ti aiutano. A te posso dare 5 giorni per l’influenza; ma al manovale o il muratore che va da Lucacchioni o compagni che gli pagano la giornata e che quando sono lì dicono, dottore, se sta male, resti a casa; ma se viene a lavorare, lavora come tutti gli altri, io a lui 10 giorni glieli do, se ritengo opportuno. Però ripeto dipende sempre dalla personalità del medico e dallo sforzo che può fare il medico per capire la situazione;
Ma quello che non ti perdoni e non ti perdonano e non sono perdonabili sono gli errori fatti per cattiva volontà; cioè le ricette per telefono, le prescrizioni per telefono.
Perché è un ‘altra cosa che il medico condotto non deve assolutamente permettere è che la moglie venga a interferire.
Nel senso che, quando avevo i bambini piccoli, molte mamme che avevano i figli piccoli, telefonavano a mia moglie, per dire “signora, mi dica, lei ce l’ha..che gli da?”
Allora al volo, dopo l’accenno della moglie la famiglia rispetto alla professione, come ha influito?
Il discorso è così: se hai una amante, la professione ti giustifica e ti da un sacco di possibilità. Se non ce l’hai, è inutile stare a fare il martire, la vittima. Ti tocca e basta, ci vai.
Un lavoro senza orario…
Sì, però si può anche non far pesare tutto. Io quando la notte toccava, sapevo che ogni 3 4 5 6 notti, la chiamata ci scappava, sembra assurdo, ma io vi confesso che siccome è sempre la statistica che poi ti aiuta, che quando erano passate 4 o 5 notti che non mi avevano chiamato, io preparavo sempre più preciso le pantofole, le ciabatte, le scarpe, la tuta; perché tanto mi tocca; allora se mi toccava, meno male; così per 2 giorni…
C’era una stagionalità?
Sì, d’estate ti pesa di meno, vai in macchina, d’inverno, uscire dal letto, andare in campagna. Qualche volta sai dopo, quando avevano cominciato ad avere non il motorino, ma la macchina, che venivano a chiamarmi con la macchina, allora facevo un po’ il furbo e dicevo “senti, ti dispiace se vengo giù con te e poi mi riporti su?
La crisi della mezzadria l’ha vissuta nella fase finale allora…
Si, nella fase conclusiva; però per la fase della mezzadria, prima della Pieve , sono stato a fare una sostituzione lunga a Papiano, comune di Marsciano. Avevo i poderi di Casalina, dove c’erano case accoppiate, almeno 20 persone a famiglia, grandi poderi, belli.
Qualche rimpianto?
Forse avrei potuto fare qualche viaggio in più, magari sacrificando qualche giornata o qualche settimana di presenza in più qui, sarebbe andata bene lo stesso. Sai questo non dico ritenersi indispensabili, ma almeno utili sì, allora la difficoltà questo lo lascio così, quest’altro così…
Questo è un rimpianto in termini di avere e in termini di dare?
Ma no. Ti dirò che appena smesso di lavorare, era tutto da verificare, cioè: poteva anche essere “finalmente si è levato dalle palle”. Quindi lipperlì ho soprasseduto al giudizio. Però dopo 10anni ho potuto constatare che eravamo riusciti a creare un rapporto di affetto. Che è rimasto dopo 10 anni. Direi che oggi godo della stesso affetto…
Questo vuol dire che la parola stima..
Ma guarda che però la stima è un’altra cosa. Era bravo però adesso non c’è più ed è finito.
Guarda, ti garantisco, c’è l’affetto. Io rimango anche male, mi vedo abbracciare, bacioni, da ragazzini che io li ho lasciati che avevano 5 6 anni. Il mio dottore! Cambiano quando crescono.
Allora qualche volta cerco di capire chi è e chi non è; non è soltanto la vecchietta o la mia coetanea che dice che siamo cresciuti insieme; ma sono quelli di 20, 30 anni indietro, sono quelli che soprattutto mi gratificano. Non è di stima questa valutazione, questo rapporto così aperto e sofferto perché alla fine ti paga in qualche modo. Forse la mia natura.
Chiudiamo qui. Grazie dottor Bartolini. Di tutto. Di questa intervista e soprattutto di tutto il resto. Di tutto il suo lavoro.
F: che c’è adesso nell’organizzazione sanitaria che tu vedi avrebbe bisogno di intervento?
B: A CdP?
F: sì, ma poi CdP fa parte di una situazione generale.
B: è difficile dirlo, perché se non ci sei dentro, i giudizi li dai guardando un po’ dal buco della serratura; la lamentela che sento è questa: la scarsa partecipazione del medico alla….
F: Tu hai vissuto questa vicenda dell’ospedale, fin dagli inizi quando era nelle condizioni,su su, se dici nel ‘98, praticamente alle soglie di quello che è stato il punto di arrivo del cosiddetto ospedale unico comprensoriale.
Che giudizio dai di questa vicenda? Cioè come l’hai vissuta e vista?
B: Ti ho detto: il problema è che qualche volta uno rischia di rimanere ancorato alla propria struttura e formazione mentale ; rischia di non essere obiettivo.
Bisognerebbe viverci dentro.
E’ la spersonalizzazione del rapporto medico-paziente; e tu vedi i pazienti amici eccetera, che hanno avuto un rapporto; allora vi racconto una vicenda personale triste ma recentissima: lunedì dell’altra settimana è morta mia sorella ; la più giovane dei 5 figli;è morta della solita malattia… ..io avevo in mente questa preoccupazione; arriva il momento in cui la chemioterapia finisce, perché non può fare altro; poi c’è una fase, che non si sa quanto è lunga, e qui c’è un vuoto.
Si può caricare di tutto questo vuoto? Lei aveva un marito e una figlia; tutto questo vuoto sul medico di base, di famiglia? Difficile.
In famiglia molte cose da fare; non la vivono più come facevamo noi; per me era più facile fare quasi tutti i giorni la VISITINA E CREARMI un buon sistema di assistenza…..
Bene, ho avuto la graditissima sorpresa , come coprire questo lasso di tempo, mi è venuta incontro la responsabile della chemioterapia: guardi, noi ci fermiamo qui, però c’è una fase e lei capiva perché, vecchio medico, capiva che c’era questa fase da coprire.
Ha capito anche che non potevo essere io,per ovvie ragioni.
Allora mi ha indicato una struttura che è nata da poco e si chiama…………(malattie terminali)…che è stato contattato da noi , a nome di questa professoressa;ero presente……; vi garantisco che ho rivisto in questa giovane dottoressa , infermiera, infermiere, mi si è riaperto il mondo dei tempi passati;di cosa facevo io ;cioè io mi creavo un referente nella famiglia ; non potevo dar retta a tutti i parenti che arrivavano il sabato o la domenica;la nuora, la cognata, chi ti pare.
Uno o due di riferimento che avevano un contatto diretto con me, avevano i farmaci a disposizione , sapevano cosa dovevano fare; io andavo, vedevo; perché la famiglia la lasciavi un po’ fuori perché c’era questa……..; ho rivisto questo; è campata un mese e mezzo, due, mia sorella, con un ‘’assistenza capillare; ma umanamente pregnante; cioè fatta responsabile……. Io ho detto a questa dottoressa: sentite, io posso dire una cosa: siccome è nata da poco, i medici di base non lo sanno che esiste questa struttura;tanto che il medico di famiglia non sapeva niente ed era lì con me entusiasta e si è dato disponibile ed una collaborazione.
Guardate, se voi aspettate che la notizia circoli passivamente così,e non avete creato un presupposto per la collaborazione e il coinvolgimento dei medici di base, state tranquilli che quello che potete fare adesso, tra 1 anno non lo potete fare più; perché sarete oberati di lavoro, di tutte le rogne scaricate addosso a voi; perché i medici, il sabato e la domenica non vogliono noie; perché io ho tanto da fare; allora c’è quel centro e tutti lì.
Voi fra un anno, sarete costretti a fare liste di attesa, non potrete venire qui quando e come vi pare,perché avrete mille persone da seguire; se riuscite a creare una collaborazione, a coinvolgere i medici; per cui il filo diretto tra voi e il medico di famiglia ci deve stare; allora il medico fa, ma ha il supporto e un’assistenza anche tecnica, specialistica, perché voi siete specializzati in questo tipo di assistenza; dipende tutto se il medico lo coinvolgete o se recuperate molti medici che queste cose purtroppo non le fanno più perché pensano…
La struttura è il vecchio manicomio ; è a Perugia; c’è ad Assisi ; credo ci sia a Città di Castello; le stanno …queste strutture; però certo che se le intasano .
O: alla luce di quello che ci stava raccontando adesso, volevo chiederle: se un ragazzo, adesso, venisse a chiederle: vorrei iscrivermi a medicina, adesso; quali sarebbero i punti cardinali, che lei pensa fondamentali da condividere con un futuro medico? Cosa direbbe per prima? Quali battaglie direbbe imprescindibili, alla luce della mia esperienza e di quello che credo potrà essere il tuo lavoro?
B: ma vede, dal punto di vista ;allora le dico questo: io ho una nipotina di 2 anni e mezzo; l’altro giorno le faceva male un orecchio ed ero a Perugia e le ho dato un’ occhiata; dice: “mio papà fa il dentista; cura solo i denti; nonno Domenico è medico e fa tutto”.
Allora si è fatta guardare l’orecchio; la eccessiva settorializzazione. La medicina non può prescindere dalla conoscenza..; insomma, io non posso ammettere che io mando un paziente dall’oculista; e l’oculista ritiene che sia importante sapere quale sia la pressione arteriosa di questo paziente, non ammetto che l’oculista non sappia misurare la pressione arteriosa; non l’ammetto.
O: L’olistica, certo.
B: quindi dico, dipende da cosa vuoi fare: vuoi fare il ricercatore? Non ho esperienza in quei campi e non ti posso dire niente. Se vuoi fare medicina generale, guarda fai; vuoi fare lo specialista? Prima fatti le ossa come medicina generale; dopo capirai i rapporti, le connessioni, le interconnessioni.
Però è difficile.
O: si parla di una persona con la quale rapportarsi .
B: bisogna imparare a captare un pochino quello che ti dice il paziente; e tornarci sopra anche 2 o 3 volte, fino ad essere convinto.
O: Infatti ho notato che lei ci raccontava anche del fare domande ai suoi pazienti .Il che non è affatto ovvio, da quel che sento.
B: certo, sennò è un dialogo tra sordi.
Dottore sto male; detto così, non sta bene, perché io non ti vendo la mortadella; tu vai al negozio e dici voglio un etto di mortadella e la pigli.
Stai male e allora cominciamo a dire più o meno che cosa; perché se avviene uno sbaglio, chi ci rimette sei tu; non sbaglio solo io, ma sbagliamo in due.
Ci rimettiamo tutti e due: io professionalmente e tu materialmente; ma sbagliamo; allora aiutami a non sbagliare; e questa è un buon coinvolgimento.
E il paziente vuole questo: vuole essere coinvolto.