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Per fortuna che c’è Riccardo “Non è sempre facile voler bene a Siena”

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Bellissime parole prese da quella miniera inesauribile che è la sua pagina fb. 
Riesce difficile anche a noi che, eppure, “stiamo in fondo alla campagna”. E abbiamo verso il capoluogo una reverenza un pò selvatica: quell’impasto di rispetto-devozione-soggezione che i mezzadri di un tempo nutrivano per il Fattore, o per il “Sor Marchese”.
Non è facile perchè Siena è città che tiene a mantenere le distanze. Anche (e soprattutto) con il suo territorio. Con quel fare talvolta sprezzante di chi, nei secoli, è sempre bastato a sè stesso, e si è abituato a collocare l’interlocutore in una posizione subalterna: “Da quando, nel 1100, il mondo spacciava per dessert un intruglio di farina nera e lardo, mentre a Siena inventavano il panforte, e i ricciarelli”, mi disse una volta il professor Balestracci.
Ed è lì, mi parve di capire, che è nata la “Civitas”.
E dalla “Civitas” nacque Montaperti e la Repubblica di Siena, che batteva moneta e arrivava fino al mare. Nacque l’idea di costruire la chiesa più grande della cristianità (prima che la peste del 1348 gli facesse cambiare idea). La “Civitas” conobbe l’orgoglio di Piero Strozzi e il coraggio di Brandano, quando scoccò l’ora del declino. La leggenda della Madonna di Provenzano e il libero stato di Montalcino, “ultimo baluardo” di quei Senesi irriducibili. Dalla “Civitas” nacque il Monte dei Paschi, che fu la prima banca del mondo. E naturalmente il Palio, che di quella “Civitas”, e di quel modo di stare al mondo, è diventato l’emblema.
Eppure, il Palio dell’altro ieri ci ha lasciato, in bocca, un retrogusto aspro. Insieme all’immagine di una città stanca, ripiegata in sè stessa, che ha steso una specie di drappo nero gonfio di tensione e preoccupazione sopra una festa che invece si vorrebbe coloratissima. E che in virtù di quei colori è diventata la festa di piazza più bella e sentita d’Italia, e forse del mondo.
Fosse successo quindici, vent’anni fa, il Palio del 2 luglio 2022 lo avrebbero celebrato con tutti i crismi, l’ideale ritorno alla vita di tutta una comunità dopo due anni di silenzio. Invece è venuto fuori una specie di aborto: otto cavalli, che poi sono diventati sette, poi sei. Una partenza chiaramente irregolare data per buona per non tirare troppo tardi, come se il Mossiere avesse voluto dire: “Ovvia, sù… Togliamoci ‘sto dente prima possibile”.
Ma il Palio non è un dente che duole, o un peso dal quale ci si libera… E non è nemmeno il sospiro di sollievo che si tira perchè la LAV non ha emesso comunicati, l’Ente Protezione Animali non ha rilasciato dichiarazioni, la Brambilla non è apparsa al telegiornale delle otto e non ci sono state reazioni da parte di Italia Nostra, della FAO, del Club Alpino, dell’ACI o della FederNuoto.
Il Palio non è “liberarsi da un peso perchè tutto è andato bene”. E’ un orologio biologico che batte da mille anni, e un’emozione, e un sentimento talmente unico che in un mondo così secolarizzato non sembra nemmeno possibile possano esistere: una macchina del tempo dove ancora coesistono il Te Deum in latino (cantato anche dai ragazzi di quindici anni, che lo sanno a memoria) e la bestemmia più atroce. Il bacio e il bercio, la carezza e il cazzotto. Il mutuo soccorso e il canto collettivo… Quello che dice “per forza e per amore”.
Ecco.
Io, sabato sera, ho avuto l’impressione che Siena abbia perso, se non proprio l’amore, molta della sua forza. Che quella “Civitas” fiammeggiante e intransigente, orgoglio di un’intera città, stia velocemente lasciando il posto ad una specie di rassegnazione. Di un declino inevitabile che non si può combattere, di una “decrescita infelice” alla quale sacrificare persino il Palio.
Dimenticando che il Palio non è una competizione ippica, alle cui regole si vorrebbe assoggettare, come fosse la quarta corsa di Tordivalle. Il Palio, piaccia o no, è l’anima di un popolo.
Lo specchio di un popolo che è tutt’uno con la sua “Civitas”, e in virtù di quella ha saputo fornire al mondo una visione che ha reso Siena unica, e irripetibile.
Ed è per quella visione, e per quella Siena, che vale la pena di combattere.
Riccardo Lorenzetti