Cose scritte tra noi: “Il vecchio e il nuovo”

by Gianni Fanfano

Tolstoy diceva che la storia non la fanno i capi di stato, essa è determinata dalla somma di ogni singolo comportamento di ciascuno del popolo. La storia più risonante, quella scritta nei libri, è attraversata da una trama fittissima di episodi, eventi, piccoli drammi o gioie che sono la nostra vita quotidiana…

Gli operai arrivarono molto presto al mattino, avvolti dalla leggera nebbia del novembre chiancianese. Scaricarono i camion e iniziarono ad installare il cantiere. Erano infreddoliti, arrivavano dal meridione, forse dalla Calabria. In breve tempo misero su un capanno di lamiere ondulate, poi come fosse stato un accampamento, un villaggio, svilupparono il cantiere quasi congiungendo il capanno e l’albergo dove andavano eseguiti i lavori. Dall’ultimo piano dell’edificio applicarono un enorme tubo che sembrava un serpentone color arancia attraverso il quale i calcinacci andavano a finire prima su un carro e poi ammucchiati nel piazzale del parcheggio. In seguito una ditta avrebbe smaltito tutto il vecchiume. Mentre il cantiere veniva ultimato due operai si occuparono di staccare: corrente e acqua. Così l’edificio non era più alimentato direttamente, ma tramite un grosso cavo supplementare per l’elettricità e una cannella per l’acqua che erogava nel piano terra fuori all’edificio. Da quel momento, molto alacremente, iniziarono i lavori, con questi uomini che, quasi inebetiti da anni e anni di uguale mansione, meccanicamente si aggiravano tra la polvere, la calcina, con i loro scarponi sempre fangosi. Alcuni si armavano di attrezzi e senza troppi complimenti, demolivano le parti da rifare. L’azione avveniva con una certa brutalità. Con picconi e pali di ferro furono divelte finestre, infissi, telai di porte. Dopo con lo stesso piglio quasi cattivo, attaccarono ai muri divisori. Sembrava fossero stati offesi dalle pietre e che quindi le punissero con solenni mazzate che demolivano rumorosamente, mentre un gran polverone si allargava per tutto il piano.

L’abbattimento dei divisori era necessario per trasformare le camere secondo un nuovo, più razionale progetto. Certamente i lavori erano in parte finanziati dallo stato per la messa a norma dell’albergo. Comunque una ventata di novità ci voleva. Nuovi spazi, reinterpretazione degli ambienti, punti luce più accattivanti e che valorizzassero meglio la struttura. E poi sarebbe stato opportuno valutare la costituzione di un centro benessere, magari anche piccolo. Si sa che la clientela oggi giorno è esigente: un albergo senza palestra, sauna, piscina, a che serve? Intanto era tutto un demolire. Rumori assordanti e polvere. Di tanto in tanto qualcuno si avvicinava alle fauci del serpentone color arancia e scaricava secchioni di detriti che comprendevano: schegge varie, piastrelle rotte, tubi, brandelli di moquette. Di tutto, il serpentone ingoiava per poi restituirlo giù, al piano terra, sul carro che appena pieno veniva scaricato nel piazzale.

Il vecchio proprietario dell’albergo, ormai stanco e malato, aveva ceduto tutto al suo unico figlio. Questi, incalzato da nuove leggi, aveva ideato e organizzato il piano di lavoro per l’ammodernamento così da ottemperare alle leggi e allo stesso tempo migliorare la struttura.

Gli operai erano efficienti nel lavoro, tuttavia quando si spostavano nel cantiere, con una pala sulle spalle, un mazzolo in una mano e una cazzuola nell’altra, avevano una flemma e un distacco assolutamente inattaccabile. Come se non fossero avvezzi ad occupazioni che non attenessero in pieno al loro mestiere. Chi ad esempio era andato a prendere un piccone nel capanno, camminava lento e con aria trasognata. Appena tornato alla sua mansione, mettiamo di abbattimento muri, cominciava a menare colpi come se quella fosse l’unica ragione della sua vita. Tum! Tum! Tum! Non sentiva storie. Insensibile alla stanchezza, alla fame, avrebbe anche potuto ferirsi, i colpi sarebbero continuati a piovere inesorabili, spaccando pietre, mattoni, tutto quello che avrebbero incontrato, fino a che il muro non sarebbe stato raso al suolo, distrutto. Poi magari con lo sguardo spento rifaceva la strada, mogio, mogio e riponeva l’arnese nel capanno.

Ogni mattina i lavori cominciavano prestissimo. Il vecchio dal letto poteva udire distintamente tutti i rumori. La sua casa era poco distante. Quasi indovinava quale parte del suo albergo attaccavano, senza pietà! “Così sono i giovani” pensava “basta che distruggono, demoliscono e pensano di avere fatto tutto”! Quei colpi che sentiva, sembrava percuotessero il suo corpo e la sua anima. Tum! Tum! Tuuum! Ecco, magari stavano abbattendo quel muretto della sala che lui, a suo tempo, volle ricoprire di travertino. Aveva speso un occhio a farlo scanalare dal marmista. Però i clienti ci rimasero a bocca aperta! E ora? A chi lo andava a spiegare? E poi tutte queste leggi! Gli sembrava che i legislatori non avessero altro da fare che vessare quelli che avevano provato a farsi una posizione lavorando tutta la vita, senza concedersi mai niente. Ecco! Chi faceva le leggi, avrebbe dovuto tener conto di queste cose. Altro che storie. Poi magari chi ruba, chi ammazza, viene arrestato e il giorno dopo è già fuori per dare noia alla gente perbene.

Certamente ormai lui era vecchio, ma se avesse avuto la forza di farlo, non avrebbe continuato a lavorare. Non capiva le nuove tendenze. Non ci si ritrovava. Una vita non basta a far comprendere e assimilare i cambiamenti del mondo. Sicuramente quando lui era giovanotto, salendo sul treno del tempo e del progresso, aveva lasciato in stazione i vecchi di allora che non capivano lui, perché il tempo non era loro bastato. E’ tutto un ciclo. Appena iniziano i ricordi inzuppati nel dolce‑amaro della nostalgia, vuol dire che sta partendo un nuovo treno che lascerà perplessi nella stazione chi nemmeno comprende dove e come questo nuovo convoglio si avvia.

Ogni mattina il vecchio si svegliava prima dell’alba. Dopo quasi due ore cominciava ad attendere l’inizio della giornata degli operai. Tum! Tum! Erano rumori sordi come di cose morte. Giungevano al vecchio ovattati, su di un’onda lunga e ampia.

I rumori e il vecchio erano due mondi separati. I rumori, nel loro significato, violentavano il vecchio. Lo violentavano proprio perché non capiti, prima di tutto da un punto di vista pratico e poi anche legislativo. Nel buio della camera, aspettando il mattino e lo stupro dei rumori, qualche volta pensava alla sua gioventù.

Prima di realizzare quel magnifico albergo: quanto aveva sognato!

Sognava senza scorgere reali possibilità di attuare il suo progetto. L’albergo più grande di tutta la zona. Era un progetto notevole. Quando ci pensava il cuore batteva più velocemente. Il solo pensiero lo emozionava e lo eccitava. Comunque sogni a parte, c’era voluta tutta la grinta, tutta la voglia di emergere e poi una fatica fisica e mentale enorme, immane. Ma alla fine, pezzetto dopo pezzetto tutta l’opera era stata realizzata. Con la tenacia, i suoi sogni si erano materializzati. I battiti del cuore avevano accompagnato i sogni, la realizzazione, ed erano continuati durante la sua attività. Non avrebbe potuto farci nulla, tutto quello che cominciava doveva essere guidato dall’emotività. Ora era facile distruggere. Vigliacchi! Con che cura aveva scelto i materiali. I pavimenti, i marmi delle sale. E poi che dire del legname di porte e finestre? Era andato in montagna. Aveva scelto in segheria dal suo falegname di fiducia. E ora avevano stroncato tutto. Quasi come una imposizione della legge. Ma che legge sarebbe quella che fa distruggere? E pensare che quando lui aveva concepito il suo sogno, seguiva personalmente le maestranze nel lavoro. E ideava le cose come se avessero dovuto durare in eterno.

E invece non erano trascorsi nemmeno trent’anni e distruggevano quello che lui aveva fatto dal niente. Le regole del mercato, dell’economia, erano per il vecchio una lingua incomprensibile. Lui ragionava in un modo semplice e pratico e non accettava il fatto che si dovesse rifare l’albergo togliendo materiale di qualità, per niente usurato, e sostituirlo con un prodotto più scadente. Questo pagando fior fior di quattrini, anche se in parte finanziati. Tra i pensieri e i ricordi, le luci dell’alba si intrufolavano attraverso la finestra. Verso le sette gli operai cominciavano; Tum! Tum! Tum!

A quell’ora entrava in camera la badante: “Buongiorno signore”. Questo era un altro supplizio. Essere assoggettati, dipendere da una persona estranea, che non capisce la lingua, che non capisce la cucina, che non capisce le usanze, che non capisce le abitudini. Poi quando parla non si spiega bene. Il vecchio non la sopportava. Comunque per forza maggiore doveva affidarsi alle sue cure e subirne i conseguenti disagi sommati alla stupidità. “Signore, sentito operai che lavorano?” Capirai, il vecchio non aveva fatto altro da quando avevano cominciato. Li aveva sentiti nei timpani e anche nell’anima. Ma che cosa voleva saperne lei!

Del resto veniva da un paese che il vecchio non aveva mai sentito nominare. E non aveva la minima idea di dove si trovasse. Lei faceva del suo meglio, il vecchio lo capiva, ma ciononostante non la reggeva.

Un giorno, malgrado l’approssimarsi del dicembre, il clima non era pungente, anzi un bel sole, bello e caldo, rendeva l’aria mite, piacevole e corroborante. Il vecchio non usciva quasi mai. Però quando il tempo lo permetteva ne approfittava. Una boccata di aria faceva sempre bene. Così, bastone alla mano, con piccoli passi, si avviò verso l’albergo. Bastava attraversare il piazzale del parcheggio. Avanzando veniva a trovarsi tra mucchi di calcinacci e altro materiale che era stato prima demolito e poi sgombrato. Giaceva lì in guisa di reliquia. Il tutto dava l’idea di un vasto e deprimente mosaico. Sembrava una sorta di piazza metafisica. Un quadro di De Chirico dal quale emergevano lastre di marmo frantumate, pezzi di colonne, cornicioni di stucco, separé istoriati, con su una fuga di linee che partiva a raggiera dal punto dove il colpo demolitore si era abbattuto con tutta la sua devastante caparbietà. Gli occhi del vecchio sembravano quelli di un pazzo. Sembravano schizzassero dalle orbite mentre scrutavano nelle cataste di robaccia individuando colori e forme ridotti ai minimi termini. Era una pena, una malinconia. Quella roba era il riflesso della sua vita ormai alla fine. Tuttavia gli piaceva notare come, anche se tra i rifiuti, alcuni materiali, soprattutto decorativi, facessero ancora bella mostra di se emergendo, spuntando, qua e là dove lo sguardo riusciva ad arrivare. La tenacia che questi materiali avevano nel resistere, riflettevano l’energia e la passione spesa da chi li aveva scelti e comprati.

Attraversato il piazzale, il vecchio entrò nel luogo che un tempo aveva considerato una sua creatura. Quasi come un organismo vivo. Ebbe l’impressione di un edificio ucciso. E sulle rovine di quella sorta di cadavere sarebbe rinato un nuovo albergo… lontano dal suo cuore. Si avventurò tra il fango, la polvere, gli operai. Cataste di mattoni, forati, sacchi di cemento, malta, si ergevano al centro di spazi dove il muletto avrebbe potuto facilmente caricare e spostare. Due operai si chiesero chi fosse quel vecchio: era pericoloso stare lì in mezzo al cantiere. Poi ripresero con colpi poderosi a scardinare un ultimo infisso dal quale soffi di polvere partivano ad ogni picchiata. Il telaio non voleva saperne di staccarsi dal muro. Questa resistenza ad oltranza era una specie di soddisfazione per il vecchio, una magra consolazione, ma non gli dispiaceva notare come la sua opera fosse dura da estirpare. Tutto sommato anche lui, ancora resisteva. La morte doveva darsi un bel po’ da fare per portarselo via. Comunque l’infisso alla fine sarebbe stato divelto come la sua vita sarebbe finita. Era passato un mese dall’installazione del cantiere. I lavori già da un po’ di tempo procedevano nella loro fase costruttiva.

Le pareti divisorie giorno dopo giorno si ergevano secondo la nuova disposizione. Alcune erano già state ricoperte dall’intonaco. Andava delineandosi insomma la nuova conformazione degli spazi.

Una mattina giunse un camion che trasportava una pala meccanica. Fu scaricata tramite una passerella di ferro rinforzata. Con essa poi, i mucchi di calcinacci e d’altro materiale, venivano accumulati nel cassone del camion. Furono necessari sei viaggi per sgombrare il piazzale. Il vecchio dalla finestra di casa sua vedeva e gli sembrava che si stesse portando allo scarico una parte di se. Per associazione di idee pensò alla sua gioventù, quando invece di demolire, lui, aveva costruito. Poi andò più indietro nel ricordo, a quando era un ragazzo, e lavorava come cameriere. Alla sera a volte, allora, i piedi gli dolevano. Tutto quell’andirivieni, con piatti, vassoi, bicchieri, posate. La sera era stanco, ma il suo corpo proseguiva a pulsare indomito con il vigore dei diciotto anni. Cadeva affranto sul letto ma avrebbe potuto balzare su di nuovo e affrontare il mondo intero. Oppure una donna, come quella volta che ebbe un’avventura con una cliente. Lui era nascosto dalla tenda e le teneva i fianchi con le mani, lei affacciata rispondeva giù al marito che le chiedeva quando doveva passare a prenderla: “Dammi almeno il tempo di fare una doccia aveva risposto lei”.

Quel sesso gli era parso senza fondo, una voragine che avrebbe potuto inghiottirlo. Quando raggiunse il piacere si sentì svuotare interamente, come se sangue e organi avessero abbandonato il suo corpo. Il cervello però no. Quello non lo aveva mai perso per nessuno. Tanto meno per una donna. Dopo il sesso la cliente era entrata nella doccia. Lui aveva continuato ad ammirare, sotto la schiuma, la morbidezza di lei che sfregando con la spugna faceva muovere e vibrare le parti del corpo. Lei lo chiamò sotto il getto d’acqua. In un attimo lui si denudò e corse a premere il suo corpo contro il corpo di lei. Che sensazione! E che bello essere giovani.

Ad un certo punto della sua vita tutti i ricordi giravano come in un calderone che uniformava le sensazioni. Nella vecchiaia invece, il calderone aveva rallentato quella specie di vortice, e la mente riusciva ad estrapolare ricordi che sembravano ormai più che sepolti.

I lavori erano terminati. Erano stati eseguiti perfettamente. L’albergo risplendeva di nuovo. Alcune vetrate, sapientemente distribuite dall’architetto, lasciavano intravedere l’interno, i salottini e alcuni angoli con semplici ma efficaci giochi di luci tra le piante. L’ingresso e la hall erano maestosi ed erano stati divisi dal bar con dei separé in vetro stile liberty. Per entrare poi nella sala da pranzo si passava sotto un portale di pietra scolpita, d’epoca, incassato in una parete di vetro fumé. Questo era il pezzo forte.

Tutti avevano riconosciuto che nel suo insieme l’albergo era meraviglioso. I complimenti si sprecavano. All’architetto, alle maestranze, a tutti quelli che avevano partecipato, in qualunque maniera, ai lavori.

Il giorno prima dell’inaugurazione, due muratori si trattennero anche se l’albergo era ormai a posto in tutte le rifiniture. Si occuparono di murare la lapide al cimitero. Questo però non era incluso nel lavoro contattato dalla ditta. Era un extra, che veniva pagato a parte. Era una specie di favore che avevano fatto i due operai. Il vecchio se n’era andato giusto in tempo per non vedere l’albergo tirato a nuovo.

Nunzio Dell’Annunziata

 

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