Home Rubriche A Tavola da Me “Colombacci alla leccarda”

“Colombacci alla leccarda”

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La natura mi ha dotato di un robusto appetito, retaggio genetico italiano ancora presente nel DNA, che prende il nome di fame: fame atavica, quella che non bastano alcuni decenni di consumismo cieco e smodato a cancellare. Ho sempre prediletto i sapori genuini e decisi della cucina territoriale, ma non quella rivisitata da alcuni grandi chef che, a parole dicono di seguire la nostra gloriosa tradizione, e nei fatti creano un quadro nel piatto con delle delicatezze, suggestive, non dico di no ma a volte anche banali. Suggestioni tuttavia delle quali, dopo qualche giorno ricordiamo solo il prezzo…salato, salato a differenza dell’insipidità della portata. Io mangio sempre volentieri, e spesso mi emoziona il cibo, mi emoziona quando sento di mandare dentro il mio corpo fette di storia sedimentata nelle componenti e nelle preparazioni di una ricetta. E i colori non sono quelli delicati e slavati dell’alta cucina: vuoi mettere una faraona arrosto con un petto di pollo a bassa temperatura….bla bla bla…. ecco credo di essermi spiegato. A questo punto la descrizione di un interessante piatto umbro non voglio denominarla ricetta bensì emozione: emozione umbra direi.

Sto parlando del “Colombaccio o Palomba oppure Piccionaccio, alla leccarda. La leccarda sappiamo cos’è: il raccoglitore dei grassi di cottura che colano dei cibi allo spiedo. Ma in Umbria è diverso….e quelli che preparano…o preparavano questo piatto ne avevano inventata una sollevata su quattro piccoli supporti in modo da poter mettere sotto la leccarda stessa, la brace. Ma andiamo per ordine. Si puliscono i colombacci lasciando all’interno: cuore, fegato, polmoni, si inseriscono, sempre all’interno dei volatili, alcune olive, qualche fettina di pancetta, sale, pepe e una foglia di alloro. A questo punto si avvolgono i colombacci con fette sottili di pancetta e si legano, si infilzano nello spiedo e si mettono a girare davanti al fuoco vivo del camino. La cottura si protrae per circa tre ore, fino a quando i colombacci risulteranno teneri al tocco della forchetta. La leccarda va posizionata ovviamente sotto allo spiedo e deve contenere (ecco la particolarità) qualche oliva, qualche cappero, un po’ di pezzetti di cipolla e del vino rosso. Sotto alla leccarda, come avevamo accennato all’inizio, ci deve essere la brace in modo che i vapori che da essa si sprigioneranno vadano ad ammorbidire e aromatizzare i colombacci. Ogni venti minuti circa lo spiedo va irrorato, unto, con il grasso che si raccoglie nella leccarda. Quando le palombe sono cotte, si tagliano a metà e si mantengono al caldo usando un po’ del loro stesso grasso per non farle asciugare , si recuperano cuore, fegato, polmoni dall’interno e tagliati a pezzettini si pongono in una padella. Il contenuto della leccarda dal quale abbiamo tolto l’eccesso di grasso per ammorbidire la carne, va ad unirsi alle interiora a pezzetti. Per completare la salsa in padella, si addiziona una cucchiaiata di concentrato di pomodoro e con questo intingolo si condisce la pastasciutta. Il colombaccio si serve dopo la pasta adagiato su di un crostone di pane casereccio che ha assorbito un po di unto della carne. Il pasto poteva trovare la sua overture naturale direi, con un tagliere di prosciutto, un po’ di verdure ripassate con aglio e peperoncino e spicchi di torta al testo. A questo punto un buon bicchiere di vino diventa un irrinunciabile obbligo…e il mangiare genuino, il colore deciso delle portate, le ritrovate radici nella nostra storia, la sacralità del convivio, restituiranno l’emozione del cibo: cibo Vero, emozione Vera in una vita sempre più affidata all’effimero, alla superficialità, alla sola apparenza.

Nunzio Dell’Annunziata