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Carnieri “Umbria, Rompere il silenzio sulla crisi”

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S¡amo a dieci anni dall’inizio di questa crisi lunghissima e complicata, la più grave di settanta anni repubblicani. Le sue dimensioni sono state certo nazionali, europee e globali, ma in Umbria lo sconquasso è stato davvero profondo, nell’avvilupparsi delle diverse dinamiche economiche, sociali, istituzionali, culturali e civili, fino a scuotere e a mettere in discussione i caratteri identitari, la tenuta stessa delle relazioni interne di una comunità che ha faticato non poco, nella propria storia, a costituirsi come soggetto unitario all’interno della vicenda nazionale.

I segni che vengono quotidianamente dalle tante tensioni che attraversano il senso comune e le culture diffuse, l’emergere di forme di rabbia e di sofferenza sociale, di disillusione, di disincanto e anche di cinismo, le angustie di molte delle risposte della politica, più in generale le atmosfere oggi prevalenti nella vita di questa nostra regione hanno via via dilatato la portata della crisi stessa, facendo emergere un travaglio complessivo della nostra comunità, il più grave della nostra storia regionale. E non poche sono le fratture e i passaggi che si sono aperti, in questi anni, per lo scorrere anche di inediti sentimenti razzisti, di chiusure xenofobe, che hanno finito per far arretrare i tanti segni positivi e democratici che l’Umbria aveva costruito in più di venti anni di accoglienza, da lungo tempo, la seconda regione d’Italia, per presenza di cittadini e cittadine immigrate. Colpisce che in questo lungo periodo siano prevalse nelle classi dirigenti umbre, non solo in quelle istituzionali, ma più in generale, politiche e sociali, culturali e civili, forme di “dissimulazione”, animate, di anno in anno, da una malcelata speranza di una “ripresa”, sempre evocata ma poi smentita, che hanno finito per prevalere sulla necessità e l’urgenza di fare piuttosto i conti con “i perché” e con le ragioni profonde e difficili della stessa natura e composizione interna dei processi di crisi, sulla loro eccezionalità e portata, nel confronto con gli altri territori nei quali si articola l’economia italiana, anche oltre la più antica frattura tra Nord e Sud. Cosi, in questo progressivo ripiegarsi della comunità regionale, si sono fatte via via prevalenti letture più contingenti, strettamente congiunturali, fuggitive, conformiste e spesso elusive, quasi a scansare quel pericolo di dover riformare profondamente gli strumenti analitici e di politica economica, insomma, come si dice, la “cassetta degli attrezzi”, per rispondere alla portata delle sfide.

Molto si potrebbe aggiungere a questa veloce descrizione delle atmosfere dell’Umbria di oggi: un senso di smarrimento negli orientamenti delle classi dirigenti, il risorgere spesso di un municipalismo chiuso, attraversato anche da culture meschine e spesso grette, che pensavamo, nei settanta anni repubblicani, di essere riusciti a marginalizzare con la crescita di una comunità democratica unita, oltre la singolarità delle tante città, e con la costruzione di una identità unitaria più larga che, nelle fasi più intense e in tante occasioni, aveva fatto dell’Umbria un “luogo” protagonista della politica e della cultura italiana, a cominciare dal “regionalismo” e della stessa riflessione sulle problematiche dello sviluppo, sui rapporti tra stato e mercato, sui profili connessi della statualità e della democrazia.

Per questo penso che siamo arrivati ormai ad una “urgenza”: occorre rompere un clima di assuefazione, nel quale l’Umbria rischia di pagare un prezzo enorme di cultura, di orientamenti democratici, di senso di sé, all’interno di un complicato travaglio che, ormai da tempo, accompagna il suo progressivo “scivolamento” verso il “basso” della scala nazionale. Sia chiaro! Sono contrario a parlare con superficialità e approssimazione di “meridionalizzazione dell’Umbria”, perché sono tuttora presenti nella comunità regionale reti di valori, soggettività, forze istituzionali, che ne fanno una realtà ancora lontana dalle più aspre contraddizioni del meridione. E tuttavia lo scivolamento nella nostra regione dei valori economici, sociali, culturali, è molto forte e stacca sempre più l’Umbria da quella area del Nord e del Centro, da cui, per molti decenni, aveva respirato e tratto impulsi e valori, pur rimanendo strutturalmente un territorio di confine. E anche la sua identità politica, storicamente strutturata all’interno delle “regioni rosse”, era stata legata a tutto questo nelle basi produttive e nella originalità di un’elaborazione della politica che aveva centrato le problematiche dello sviluppo e della sua qualità, come cuore di una sfida di “rinascita” e di emancipazione, non solo tra i ceti contadini, operai e popolari, ma nei ceti intermedi, nella intellettualità e in quelli impegnati a misurarsi con le stesse difficili problematiche della imprenditorialità.

Di qui l’urgenza di una discussione aperta, esplicita ed estesa sulla realtà contemporanea dell’Umbria e sulle sue prospettive, animata almeno da quel coraggio che in altre stagioni segnò l’iniziativa di tanta parte delle classi dirigenti umbre, anche nella diversità delle loro radici culturali e delle funzioni di rappresentanza e di governo svolte nelle istituzioni locali, regionali e nazionali. Rompere il silenzio sulla crisi. In questo 2018 è ormai disponibile una messe molto ricca ed articolata di ricerche, di contributi analitici, che premono, non a caso, quasi in modo univoco, in una stessa direzione: gli studi e le ricerche della Banca d’Italia, i tanti lavori dell’Istat, la recente ricerca di un istituto come il Cies, che ci è caro per il ricordo della forza intellettuale del suo fondatore, il prof. Paolo Leon, i molti volumi prodotti dall’Aur, e poi studi ed approfondimenti che la Regione stessa ha assegnato a protagonisti importanti della comunità scientifica regionale. Da ultimo gli studi dello Svimez e ancora il Rapporto ASviS sullo sviluppo sostenibile. C’è materia dunque per una discussione “aperta”, anche dura, fatta con “spirito di verità”, volta a capire ed a ricostruire una “visione”, fondamentale per l’elaborazione delle politiche, animandosi di quello spirito critico che, proprio nel decennio della crisi si è in Umbria progressivamente attenuato, fatto esile, fino quasi a scomparire dai tratti distintivi, culturali e politici, della comunità regionale. Questa ci sembra l’urgenza: “rompere il silenzio” che oggi costituisce forse l’orizzonte più difficile e pericoloso per il futuro della nostra regione.

Quali sono dunque i dati più allarmanti ai quali non si può sfuggire, considerando che si sono accumulati in un decennio. Il Pii prima di tutto. L’Umbria ha perso, nella lunga fase di crisi, una percentuale vicinissima a 17 punti di Pii: il dato più grave di tutti i territori italiani, con l’esclusione del Molise. E vero che il Pii non è tutto ma è il Pii tuttavia che misura le dinamiche della produzione di ricchezza di un territorio che si articola nelle reti corte, lunghe e lunghissime del valore che tengono poi, al fondo, i caratteri strutturali della vita sociale, le speranze, le immaginazioni di donne e di uomini, di giovani, i progetti delle famiglie. È un piccolo numero quello del Pii, ma dice tantissimo, indicando anche il peso, l’effetto di trazione che da 11 finisce per premere sulle prospettive dei corpi sociali, sulla loro stessa crescita, sugli animals spirits di un territorio. I calcoli dei diversi studi sono convergenti e, in questi, i confronti territoriali appaiono aspramente significativi.

Nel periodo 2007-2015 (elaborazioni Banca d’Italia) il calo del Pii umbro è stato del 15,7% (Italia -7,9%, Sud e Isole -11,9%, Marche -11,2%, Toscana -5,5%). Poi, dopo una breve ripresa nel 2015, sono venuti altri due segni negativi nel 2016 e 2017. Ancor più significativa tuttavia, per capire la realtà effettuale della vicenda umbra, è l’analisi del Pii prò-capite che collega produzione di ricchezza e demografìa. Nel 2016 il Pii prò-capite è per l’Umbria, pari a 23.900, con l’Abruzzo che ci ha raggiunto nella stessa cifra (Marche 26.400, Italia 27.700, Circoscrizione centrale 29.900, Toscana 30.000, Lombardia: 36.800)
. Nel Rapporto Cíes, che rappresenta un significativo approfondimento del posizionamento del sistema produttivo regionale, si annota che il Pii prò-capite, a parità di potere d’acquisto, prima della crisi, in Umbria era leggermente al di sopra dei valori medi della Ue/28 (102, fatta lOOl’Ue/28), al 2015 scende di oltre 15 punti (85). La stessa dinamica del valore aggiunto regionale per settori ci dice della portata acuta della crisi e del progressivo distanziamento dell’Umbria dal Centro nord (fonte Cíes). Nel periodo 2007-2015 con l’eccezione del l’agricoltura che aumenta in Umbria dello 0,7% (Centro nord +7,4%, Italia + 2,6%), gli altri settori hanno tutti un segno negativo. L’industria estrattiva -36,1% (Centro nord 6,6%, Italia -1,2%); l’industria manifatturiera -24,1% (Cenerò nord -10,6%; Italia-13,4%); le costruzioni -32,2% (Centro nord -32,1%; Italia -32,5%); i servizi -6,1% (Centro nord -1,6%; Italia -2,6%). E anche la dinamica degli investimenti fissi lordi è in questa direzione particolarmente significativa nel rapporto con il Pii regionale: era il 22,09% nel 2007, sale al 26,07% nell’anno successivo, mantenendosi al 22,85% nel 2010, per scendere nel 2015 al 16,16%. Se poi si vogliono leggere meglio le dinamiche di trasformazione di quel “modello di specializzazione produttiva” al quale abbiamo accennato, il rapporto Cíes offre un’analisi molto approfondita, utilizzando per gli anni 2007-2015 la classificazione Pavitt. Cosi, secondo questa ricostruzione, i beni tradizionali sul totale del valore aggiunto regionale passano dal 10,2% all’l 1,1% (nel Centro nord dall’8,4% all’8,0%); le produzioni su larga scala scendono invece dal 13,9% à1Ã8,2% (nel Centro nord dal 9,3% all’8,3%); le produzioni specializzate e ad alta intensità di R&S dal 2,9% al 2,7% (nel Centro nord dai 6,3% al 6,2%); le costruzioni dal 6,1% al 5,4% (nel Centro nord dal 5,8% al 4,6%); i servizi tradizionali dal 20,7% al 23,3% (nel Centro nord dal 21,6% al 21,5%); i servizi specializzati dal 27,0% al 28,4% (nel Centro nord dal 32,4% al 34,3%); i servizi non di mercato dal 16,5% al 18,1% (nel Centro nord dal 13,9% al 14,5%); altri servizi dal 2,5% al 2,9% (nel Centro nord dal 2,4% al 2,7%).

Né di poco conto, per cogliere altre dinamiche della economia umbra è il dato della economia non osservata meglio nota come “sommerso”. Il dato dell’incidenza di questa componente economica sul valore aggiunto è per l’Umbria, particolarmente significativo: il 17,0% (Marche 15,5%; Abruzzo 17,3%; Sicilia 19,2%; Toscana 14,8%; Centro 14,2%; Italia 14,0%). Una collocazione che apre per l’Umbria altri percorsi analitici che gravano non poco tuttavia sul mondo del lavoro, sulle imprese e sui caratteri della comunità. E questa “produzione di ricchezza” che, nella dinamica asciutta delle cifre, rimanda prima di tutto agli assi portanti del “modello di economia” sul quale si regge la comunità regionale: i caratteri della “specializzazione produttiva” che guidano la capacità di innovazione, l’estensione stessa della maglia produttiva, le connessioni con le più grandi “catene del valore” e quindi i caratteri della funzione imprenditoriale, l’utilizzazione e l’organizzazione del lavoro, le forme di impresa, le connessioni con la ricerca scientifica e quindi, al fondo, la connotazione strutturale dell’Umbria come “ambiente territoriale per lo sviluppo e la coesione sociale”.

E qui che stanno le radici complesse della crisi umbra ed è da qui che si dipartono anche chiusure culturali e non poche visioni anguste e ristrette, quali quelle di un diffuso, risorgente municipalismo che è tornato a pensare lo sviluppo come un processo che corre municipalmente, “città per città”, e non per reti territoriali e per qualità e intensità dei fattori. Di qui il restringersi delle visioni che puntano alla competitività da compressione dei costi, prima di tutto di quelli del lavoro, piuttosto che dalla qualità dei prodotti sia nella manifattura che nei servizi.

Insomma tornano i nodi di come questa nostra piccola regione riesce a misurarsi con gli scenari globali che sono venuti profondamente cambiando. Le faglie critiche della situazione regionale Perciò dal Pii l’analisi deve spostarsi verso altre “faglie critiche” della situazione attuale dell’Umbria. Primo, “l’internazionalizzazione” che pure nel recente periodo ha conosciuto una dinamica positiva. Nel primo semestre 2018 infatti le esportazioni umbre sono aumentate del 5,6% (Italia 3,7%, Marche 0,5%, Toscana +2,3%) con una significativa dinamica negli alimentari, nel tessile e nell’abbigliamento, nel legno e con una ripresa nei metalli e nelle macchine. Anche con questo recente trend positivo tuttavia non si arriva a superare quella quota dello 0,9% delle esportazioni umbre sul totale nazionale, ancora lontana da quell’1,0% che l’Umbria era pur riuscita a conquistare prima della crisi. Il confronto con le Marche è particolarmente esplicativa. Mentre in Umbria la quota del valore aggiunto sul totale nazionale è Ã 1,3% e dello 0,9% dell’export, nelle Marche, valore aggiunto ed export rappresentano ambedue il 2,5% del totale nazionale. Secondo, il rapporto tra modello di sviluppo regionale e ricerca scientifica sempre più fondamentale per le sfide tecnologiche e di mercato che si sono aperte in questo decennio.

E’ qui che si apre, a nostro avviso, la contraddizione più forte del modello produttivo regionale che squaderna non solo il capitolo dell’Ateneo perugino, ma quello più acuto del rapporto tra sistema delle imprese ed investimenti in “ricerca e sviluppo”: quelli umbri sono appena lo 0,3% del Pii regionale, collocati nella parte più bassa della classifica nazionale (Marche 0,50%, Abruzzo 0,39%, Toscana 0,72%). Dopo l’Umbria ci sono nell’ordine Sardegna, Calabria, Basilicata. Ed è qui che si radica anche il carattere prevalente della “innovazione” nel sistema produttivo regionale che, per gran pane, gli studiosi considerano imitativa, incrementale e per incorporazione, incapace di andare oltre una sistemazione più accorta dei fattori produttivi nei quali pesa non poco anche un mercato del lavoro molto precarizzaro segnato da un “gap di remunerazione” (qualifiche, riconoscimenti di professionalità, organizzazione del lavoro) che spesso si dimentica e che è pari al 7/10% rispetto alla media nazionale.

Di qui anche una domanda di lavoro da parte delle imprese che, nella regione, è più frutto dei settori a bassa tecnologia che di quelli a medio-alta, in una dinamica che finisce per avere in Umbria una delle percentuali più alte di “sottomansionamento” del lavoro rispetto alle capacità professionali e ai titoli delle classi più giovani. E questo il contesto nel quale si struttura quel “gap di produttività” del sistema regionale del quale abbiamo, nel tempo e da diverse fonti, un preciso riscontro. Ne ha fatto un’analisi, tra gli altri, la Fondazione Ergo (gennaio 2018) che nel proprio “Bollettino statistico” ha dato conto della col- locazione delle diverse regioni italiane in Europa, elaborando i dati al 2014 del valore aggiunto per ora lavorata nei territori europei. Fatto 100 per Ue/28 la prima regione d’Italia è la Lombardia (119,6), L’Umbria è l’ultima del Centro nord (91,7), superata dall’Abruzzo (92,3), distante non poco dalla Toscana (102,6) e dalle Marche (98,9). Sulla lettura della “produttività” in Umbria ci soccorrono ancora altri dati del rapporto Cíes che per la nostra regione, nel complesso dei settori nel periodo 2007-2015 danno una diminuzione del 5,2% contro un aumento nazionale dell’1,6% delle regioni del Centro nord. Significativa per l’Umbria è la caduta del 31,4% nelle produzioni su larga scala a fronte di un aumento del 4,9% del Centro nord o nei servizi specializzati con un dato (-9,6%) dell’Umbria molto distante da quello del Centro nord (-0,8%). E evidente quanto su questa dinamica pesi dunque quel “modello di specializzazione produttiva”, che abbiamo già sottolineato; dinamiche diverse della produttività richiamano al fondo le peculiarità di quegli intrecci settoriali ai quali più volte abbiamo fatto riferimento. Ed è questo il dato analitico più efficace e fecondo che viene dal Rapporto Cies e che è più ricco di domande verso le politiche nazionali e verso quelle delle istituzioni regionali.

E qui infatti che si colloca una domanda cruciale tesa a vedere quanto pesino anche le diversità delle politiche economiche delle diverse regioni italiane, anche di quelle storicamente governate dalla sinistra, che finiscono per determinare una diversa “infrastrutturazione territoriale per lo sviluppo” non sempre capace di modificare positivamente i caratteri di partenza delle realtà territoriali. E l’Umbria ha seguito, a nostro avviso, negli ultimi venti anni strade profondamente diverse da quelle della Toscana e dell’Emilia Romagna. In Umbria pesa certo la crisi, ma anche una seria difficoltà a premere perché il modello produttivo regionale si volga verso settori a più alto valore aggiunto. E’ significativo che la domanda dell’Umbria su Industria 4.0 (Rapporto Banca d’Italia, sede regionale, maggio 2018), sugli strumenti di incentivazione per le imprese con i super e ¡per ammortamenti, nel primo bilancio, dopo quasi due anni di operatività, si sia collocata sotto la metà della media nazionale, indice di una difficoltà del sistema delle imprese umbre ad ambire a processi importanti di crescita nella sfida dell’innovazione sia per i prodotti che per i processi, sia nella manifattura che nei servizi. Crisi e modello di specializzazione produttiva regionale E nel rapporto tra crisi e modello di specializzazione produttiva della regione il punto cruciale di analisi perché è da lì che si dipartono molte conseguenze sulla politica economica, particolarmente in direzione delle politiche di filiera, di rete, nella incentivazione organica e continuativa delle start-up, nelle politiche di R&S, non solo legate agli incentivi, ma ai laboratori e alle strutture organizzate volte a spostare il manifatturiero umbro verso settori a più alta produttività e complessità scientifico-tecnologica. Non a caso il delta negativo degli occupati in Umbria con la situazione nazionale è particolarmente importante nei settori a più alta tecnologia (0,3% dell’Umbria contro 1,1% della media nazionale, come sottolineato nel Rapporto Cies).

Ed è sempre lo stesso Rapporto che sottolinea come nei dieci anni 2007-2017 “l’indice di specializzazione” dell’Umbria si è rafforzato nei settori dei beni tradizionali, mentre è diminuito nei settori delle produzioni su larga scala, e in quelle specializzate e ad alta intensità di R&S. Ed è ancora lo stesso rapporto che sottolinea la gracilità del sistema ricerca-innovazione nella regione, considerando sia gli investimenti per addetto (Umbria 52 mila euro, Italia 95 mila euro) che la bassa capacità brevettuale della realtà umbra, già sottolineata dall’Istat, nell’ultimo Rapporto Bes: 37,8 brevetti per milione di abitanti (Italia 73,8, Marche 77,4, Toscana 79,5, Emilia Romagna 153,7).

Le dinamiche del mercato del lavoro, è evidente, sono strettamente connesse a tutti questi processi della base produttiva. Non solo l’Umbria non ha raggiunto come altre regioni gli occupati di prima della crisi, ma il dato della disoccupazione continua a pesare con forza, sebbene nel 2018, rispetto al 2017, ci siano stati miglioramenti: da 42 mila a 35 mila. Non si dimentichi tuttavia che nel 2007 i disoccupati della regione erano stati 17 mila, meno della metà di oggi. Economia e politica: questo è il nodo strategico che emerge dopo dieci anni di crisi nella regione e che preme per riaprire una discussione sul “che fare”.

Molte sono le piste che portano a riflessioni sulle politiche economiche necessarie a livello nazionale, prima di tutto ed europeo, ma anche in quello spazio importante che pure c’è per le politiche regionali, per una loro selettività in rapporto al giudizio sulla realtà economico-sociale della regione e anche sulla ripresa di una riflessione nuova sul regionalismo che le classi dirigenti umbre hanno eclissato sopportando quell’assurdo ritorno “centralistico” che ha caratterizzato le politiche nazionali sia nei periodi lunghi di centro-destra sia in quelli tecnici che in quelli più recenti del centro
sinistra.

La crisi invece rimette in campo una riflessione su sviluppo, territorialità, democrazia, ruolo dei corpi intermedi, reti istituzionali e sociali, avanzate politiche di welfare oggi più connesse con la soggettività dei corpi sociali, lungo un’ispirazione che è stata storicamente il cuore positivo della esperienza di questa nostra piccola regione e, in questa, della vicenda politica della sinistra. Certo. C’è poi il “che fare”, che pure costituisce il capitolo fondamentale da esplorare efficacemente nella ricerca e nella discussione. E tuttavia siamo convinti che si potrà affrontare positivamente solo se si riesce a partire da una visione della contemporaneità fatta con “spirito di verità” e condivisa al punto da poter condizionare positivamente i comportamenti dei grandi soggetti sociali e politici, assieme alle scelte delle istituzioni del regionalismo. I segni che vengono quotidianamente dalle tante tensioni che attraversano il senso comune e le culture diffuse, l’emergere di forme di rabbia e di sofferenza sociale, di disillusione, di disincanto e anche di cinismo, le angustie di motte delle risposte della politica, più in generale le atmosfere oggi prevalenti nella vita di questa nostra regione hanno via via dilatato la portata della crisi stessa, facendo emergere un travaglio complessivo della nostra comunità, il più grave della nostra storia regionale.

Claudio Carnieri