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Voto in Umbria. Sergio Sacchi «Gli attori sociali? Rarefatti»

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intervista tratta dal Giornale dell’Umbria di Pierpaolo Burattini

Dopo Roberto Segatori, Claudio Carnieri, Ruggero Panieri di Sorbello, Alessandro Campi, Renato Covino, Urbano Barelli, Gustavo Lamincia e Bruno Bracalente, continua la serie di interviste a sociologi, storici, economisti e intellettuali per dare una lettura, sotto diverse angolazioni, di quanto avvenuto in Umbria in occasione delle ultime elezioni regionali. Oggi è la volta del professor Sergio Sacchi.

I numeri, inevitabilmente, si portano dietro una lettura della realtà, perché non sono mai neutri ne si tratta di materiale inerte. Sergio Sacchi sorride e parte “leggero” come per attirare l’attenzione dell’uditore, forse una tecnica sperimentata nei tanti anni d’insegnamento. O magari, è una piccola gentilezza per non dover replicare al cronista:

«Potrei essere etichettato come economista già docente all’Università di Perugia… o qualcosa del genere».

Bene così, piccola aggiunta: ad aprile è stato nominato nel consiglio d’amministrazione della Banca di Spello e Bettona. Si parte da qui. Professore, che Umbria esce dalle elezioni regionali?

«Il quadro politico dell’Umbria e il senso dei risultati delle recenti elezioni sono stati ampiamente commentati e a tutte le cose dette c’è poco da aggiungere. Se mai, si tratta di metterle in fila e capire quanto pesano i singoli fattori di quella che appare come una radicale frantumazione delle preferenze elettorali: dal non voto al voto sventagliato».

Facciamolo noi.

«Forse c’è un aspetto originale e piuttosto intrigante ma poco chiosato: la divaricazione tra l’andamento crescente del numero dei candidati (e delle liste) e l’andamento calante del numero di votanti».

Ovvero?

«Come quando da ragazzi si giocava a pallone nei campetti di periferia: tutti pronti a fare i centravanti di sfondamento, ma nessuno disponibile a sacrificarsi come ala tornante o mediano di spinta. Il lavoro gregario, umile e subalterno viene respinto anche in ambito elettorale. Chissà se un giorno si arriverà al voto espresso solo da immigrati su liste composte solo da residenti da un certo numero di generazioni? D’altra parte, forse, non si tratta solo di disaffezione per mancanza di passione a sua volta alimentata da appiattimento delle differenze. Probabilmente si tratta anche di delusione rispetto all’inaridimentodel tradizionale circuito che muove idealmente dalla segnalazione/individuazione di disagi, passa per l’approfondimento dei bisogni sottostanti, approda ad una valutazione della loro intensità e importanza, stimola una maturazione di progetti che vengono poi incardinati in programmi politici proposti all’elettorato».

Possiamo fare un esempio?

«Per capirci, con un pizzico di brutalità: asili per le mamme lavoratrici o accoglienti ospizi per il parcheggio di anziani genitori? Se votare appare irrilevante e senza evidenti conseguenze e ci riduce a scegliere tra un po’ di asili e un po’ di ospizi, allora la passione per la partecipazione non può che scemare. Allo stesso tempo vengono meno, nella sostanza, le distinzioni tra destra e sinistra e suonano a vuoto anche quelle tra innovatori e conservatori».

Perché, secondo lei, queste due categorie vengono meno?

«Ci manca solo che i primi, gli innovatori (un tempo li avremmo definiti riformisti o progressisti) si accontentino di porsi come ritoccatori e che i secondi, i conservatori (questi sì, con l’etichetta immutabile nel tempo), enfatizzino l’importanza della manutenzione per un pieno esercizio della conservazione e il gioco dell’appiattimento sarà giunto alle sue estreme conseguenze, cioè al pensiero unico con conseguente evaporazione di ogni tentazione di contesa elettorale. Al massimo la posta in gioco diventa la fiducia (o la speranza?) che il programma unico venga realizzato con migliori competenze e professionalità. E per questa parte ha ragione Bruno Bracalente quando allude a possibili manifestazioni critiche consapevoli».

Chiaro. Ma l’Umbria è politicamente contendibile?

«Parzialmente sotteso a quanto detto fin qui è l’aspetto della contendibilità che in Umbria assume una luce particolare per il fatto del lungo periodo di incontrastata egemonia di cui ha beneficiato la cosiddetta sinistra. Ora la contendibilità è nelle cose, oltre che nei principii. E se in passato la contendibilità era possibile in astratto, ma non ricercata e prati cata nei fatti, ora lo sfìlacciamento di quella rappresentanza (lo “sbiadirsi” del rosso, direbbe il professo Ranieri di Sorbello) rende più concreta la prospettiva dell’alternativa. In effetti, per l’economia, il mercato contendibile è quello in cui vi è libertà di entrata da parte di nuove imprese non ostacolate in ciò dalla necessità di recuperare sostanziali costi a fondo perduto. Trasportato in ambito politico, si può dire che il costo a fondo perduto di cui oramai non si ha traccia è quello della ideologia, con il suo insieme di valori fondanti. Da qui la generazione e partecipazione di sempre più numerose liste la cui funzione di costo coincide col pensiero dei suoi promotori, senza alcun faticoso obbligo di confronto con un qualche patrimonio culturale caratterizzante. Liste leggere per politiche “mordi e fuggi” che possono autorizzare i candidati a scavallare da una parte all’altra degli schieramenti: con i programmi e persino con l’adesione a forze politiche antagoniste ma ospitali».

Dunque, secondo lei, la contendibilità non è il tratto fondamentale che ci consegna questa tornata elettorale?

«In definitiva, non vedo il fatto nuovo della contendibilità ma se mai quello di una minore capacità di regolare l’ingresso di offerenti sul mercato del consenso elettorale. Non solo i grillini o la Lega, dunque, ma tutto il pulviscolo delle liste del presidente. Però mi preoccupa un altro aspetto: la rarefazione dei gruppi sociali organizzati, diversi da quelli direttamente collegati alla distribuzione delle risorse disponibili. Permangono con qualche problema di inclusività, le tradizionali rappresentanze sindacali del lavoro e delle imprese. Ma che ne è delle accademie, delle famiglie, delle associazioni e dei comitati che si facevano carico di iniziative, anche interessanti, di animazione culturale o di salvaguardia monumentale e ambientale?».

Quale risposta si è dato?

«Non tutti sono scomparsi, ma il pulviscolo terapeutico dei gruppetti basati sull’entusiasmo militante dei volontari sembra piuttosto rarefatto: sarà anch’esso un effetto o non sarà piuttosto una causa della crisi della partecipazione alla politica?».

Professore, qual è oggi lo stato dell’economia umbra?

«L’Umbria sta attraversando un periodo non particolarmente entusiasmante. L’economia è ancora piuttosto contratta, anche se alcuni fermenti di attività confermano il godimento della sua quota di ripresa proporzionata al peso ( 1,4%) sul totale nazionale. Però, rispetto ad una quindicina di anni addietro, appare una struttura appesantita: per via di un numero di abitanti cresciuto rapidamente e di una riduzione della produttività media di quanti abitanti sono disponibili a lavorare e hanno fin qui trovato occupazione. Tuttavia, per comprendere lo stato attuale dell’economia umbra non vanno dimenticate le sue origini rurali, oramai dismesse ma non da molto tempo, nella sua collocazione geografica e nemmeno l’influenza esercitata nella seconda metà degli anni Sessanta da una originale e robusta esperienza di elaborazione analitica e programmatica. Molte delle idee raccolte nel cosiddetto “Piano Lombardini”, dal nome dell’economista che ne fu il coordinatore, furono riprese e mantenute anche nei documenti elaborati dagli uffici regionali negli anni Settanta e Ottanta. L’evoluzione economica è stata poi assecondata da una impostazione delle politiche a valenza sociale in sintonia coi valori e le aspirazioni di quegli anni. Ed è stato il successo del cosiddetto modello umbro, mix efficace di elementi caratteriali, culturali e valoriali».

Oggi questo modello è in affanno.

«Il modello ha cominciato a mostrare la corda quando a fronte di costi crescenti per il suo mantenimento, le risorse pubbliche hanno cominciato a scarseggiare e quelle private a mostrare rendimenti decrescenti. Ancora oggi, tuttavia, ha elementi di interesse, tanto positivi quanto negativi».

Facciamo una sintesi.

«In una prima provvisoria valutazione, scopriamo che l’Umbria ha ancora, e da anni, un tasso di partecipazione al mercato del lavoro maggiore di almeno 5 punti percentuali, un tasso di occupazione maggiore di 6 punti percentuali e un tasso di disoccupazione inferiore, nonostante la crisi, di circa un punto percentuale. Ha però una produttività media del lavoro assai più bassa: di circa 12 punti percentuali rispetto alla media nazionale e comunque inferiore a quella calcolata per la Toscana e le Marche. In Umbria tocca darsi da fare di buona lena per avere un prodotto che in rapporto alla popolazione è tornato ad essere assai insoddisfacente».

Come se ne esce?

«Il fatto che non va sottovalutato è che ci troviamo di fronte ad una realtà di dimensioni limitate, con un territorio assai diversificato e una popolazione di ammontare inferiore a quello di una città medio-grande. Il condizionamento esercitato da Bruxelles, sia con l’accentramento di alcune politiche sia con le direttive in ordine alle cose fattibili e a quelle non permesse, lo spazio di manovra ancora disponibile per le autorità di governo nazionale e l’inadeguatezza delle risorse liberamente destinabili a politiche regionali di sviluppo richiedono doti di intelligenza e flessibilità fuori dell’ordinario, in modo da fare il massimo con poco, ottimizzando sia l’architettura funzionale dell’organizzazione sia le motivazioni e l’impegno del personale. Il primo fronte è praticabile, ma senza il secondo la strada percorribile resta assai poca».

(1O/continua)