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Città della Pieve. Presepe Monumentale. Arriva il cinquantesimo. Un po’ di storia

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ARCHIVIO DEL CORRIERE PIEVESE
18 DICEMBRE 2016

Cinquanta anni sono tanti. Lo sono ancora di più con questi ritmi di adesso, che fuggono, veloci. E i giorni sembrano attimi. E gli anni sembrano secoli. Meglio allora fissarli nella memoria. Scolpirli, con forza nella storia di una città. Ricordarli. Riproporli. Ci è sembrato questo il modo migliore per parlare dei cinquanta anni di vita e di storia del Presepe Monumentale del Terziere Castello, che  aprirà i battenti la mattina di Natale nei sotterranei di Palazzo della Corgna.

Sarà la cinquantesima edizione del Presepe. Mezzo secolo, Intere generazioni, pezzi di storia della città. Scuole e impostazioni diverse. Persone, affetti,lavoro,tanto lavoro. Tempo tanto tempo impiegato e dedicato. Sentimenti, messaggi, difficoltà, soddisfazioni.

Come ne  vogliamo parlare? Intanto rifacendone la storia. Pubblichiamo oggi l’introduzione scritta da Gianni Fanfano alle interviste sul presepe che sono contenute nel libro “Il Castello si racconta” a cura di Gianni Fanfano e Gaetano Fiacconi  e pubblicato dal Terziere Castello nel 2012. Nei prossimi giorni pubblicheremo i contributi di alcuni contradaioli ed alcuni gruppi di fotografie. (N.d.R)

Il Presepe si racconta

di Giovanni Fanfano

“…Maria peperit filium suum primogenitum, et pannis eum involvit, et reclinavit eum in praesepio”. Quia non erit eis locus in diversorio.” Vangelo di Luca II, 7

“ Il presepe (o presepio, com’è più usato nel nostro lessico) è una rappresentazione della nascita di Gesù, derivata dalle tradizioni medievali. Il termine deriva dal latino “praesaepe” cioè greppia o mangiatoia. Nel presepe moderno si riproducono tutti i personaggi e i posti della tradizione, dalla grotta alle stelle, dai Rei Magi ai pastori, dal bue e l’asinello agli agnelli e così via. La rappresentazione può essere sia vivente che iconografica. E’ una rappresentazione prevalentemente italiana, risale all’epoca di San Francesco di Assisi che nel 1223 realizzò a Greccio, la prima rappresentazione vivente della Natività.”. Questo dice alla voce presepe, Wikipedia, la più moderna e riconosciuta enciclopedia universale e da qui noi partiremo per il nostro racconto sul presepe monumentale del Castello, il presepe della Pieve.

Il presepe di una Città

Caro lettore castellano, pievese o forestiero che leggi, devo dirti che appena un anno fa non avrei mai pensato che mi sarei impegnato a collaborare alla scrittura della storia del Castello (che per me è il San Pietro come leggerai e ti dirò) e in particolare del suo presepe come poi è successo. Poi però quando mio nipote Michele, attuale presidente del Terziere, durante la cena della vigilia di Natale, quando ormai è nostra tradizione familiare trovarsi a casa mia, mi accennò al suo progetto e all’idea di affidarmi il lavoro, non ci pensai nemmeno un attimo e diedi la mia disponibilità. Perché? Innanzitutto perché me lo chiedeva lui che si era assunto una responsabilità non semplice. Dirigere una qualsiasi organizzazione, associazione o forma organizzata di persone, non è cosa semplice. Occorre grande pazienza, disponibilità e capacità di tenere insieme persone diverse e se si può valorizzarle. Occorre comunque tempo e sacrificio, rari da trovare soprattutto se non retribuite. Occorre soprattutto il sostegno di un gruppo di persone, cioè una di squadra. Ecco siccome non mi è capitato spesso, ho pensato che era arrivato il momento che anch’io facessi un po’ il gregario.

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Un articolo sul periodico del Comune

Il secondo motivo della mia disponibilità, invece, riguarda la storia del nostro terziere. Ho fatto parte dei primi gruppi che diedero vita al corteo del terziere agli inizi degli anni sessanta che partecipava, prima del Palio alla Festa del Pievese Lontano, organizzata dall’associazione Turistica Pievese e alle Feste di San Rocco, nel Ferragosto Pievese Ero uno dei primi quattro tamburini. Insieme a Francesco Barbini, Leonardo Macchioni; Giorgio Giuliacci. C’erano anche quattro chiarine guidate da Mario Macchioni (Cianchino), un banditore che era Franco Macchiaiolo (detto Beri Beri), e un porta gonfalone che era Ario Cesaroni (detto Siluro) che veniva d’estate alla Pieve presso suoi parenti. Avevo tredici, quattordici anni, ero magrissimo e quei tamburi mi sembravano enormi. Ma ero alto e quindi facevo, già allora, anche il cavaliere. Facevamo le prove, con Don Oscar dentro la sagrestia di San Pietro, suonando le diverse marce che poi facevamo nel corso del corteo. Ancora oggi mi capita quando ho in mano un pezzo di legno o una forchetta, senza accorgermi, di mettermi a rifare quei ritmi. Ho partecipato più volte al corteo del comune che curava l’amico Valerio Bittarello. Avevo una passione per il costume del cardinale, ma il problema era che rischiavo ogni volta di fare a cazzotti con Valerio che in quelle occasioni si trasfigurava e diventava intrattabile, credo che si sentisse il pittore, assistito dalla paziente mamma Anita, l’ autore del quadro vivente che componeva.

Ma quello che mi ha convinto di più a intraprendere questo cammino, che poi ha visto collaborare tanti uomini e donne che in queste pagine ricordiamo, è stato il sovvenirmi alla richiesta di Michele, di alcune chiacchierate con Don Oscar. Con lui abbiamo parlato spesso dei terzieri e del palio, nel periodo in cui ero consigliere della Associazione Turistica Pievese, a metà degli anni settanta, con presidente quel personaggio particolare che era mio suocero Mario Barzanti. Mario, riprendendo una definizione di altri, l’ho definito in una commemorazione che ho dedicato a lui, nel decennale della sua morte, il “bolscevico americano”. Ma credo che si possa dire senza tema di essere smentiti, che dopo il periodo pionieristico degli anni sessanta, i protagonisti principali del salto di qualità della nostra manifestazione agostana sono stati proprio loro due: Mario Barzanti e Don Oscar. Erano due persone molto diverse per provenienza e formazione, che si stimavano molto nei loro autonomi ruoli, che erano accomunati soprattutto dall’amore per la loro terra e che alla fine finirono per volersi anche bene. Ricordo ancora le prime bellissime parole dette da Don Oscar sulla bara di Mario al termine di un funerale civile: “ Sono qui non da prete, ma da amico…”

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Don Oscar Carbonari e Mario Barzanti in una scherzosa foto degli anni settanta.

Fu quello il momento in cui i terzieri assunsero una struttura organizzata diciamo “istituzionale”, si codificarono le prime regole, si stabilirono gli opportuni contatti con Comune e Regione e si avviò anche una promozione, che cominciò a collocare il nostro Palio dei Terzieri, dentro le iniziative di rievocazione storica più significative della regione. Non eravamo all’altezza dei Ceri di Gubbio, del Calendimaggio di Assisi o della Quintana di Foligno, ma cominciammo a candidarci per essere collocati nell’eccellenza regionale e non solo.

Dopo quegli anni settanta io trascorsi diversi anni mentalmente e spesso anche fisicamente fuori Città della Pieve, anche perché per me è valso il detto “ nemo propheta in patria est”. E mi sono anche allontanato dalle iniziative e dalle manifestazioni pievesi, quindi anche dal palio e dal terziere. Ma più volte Don Oscar direttamente e indirettamente nel corso degli anni del suo declino fisico cercò di coinvolgermi di nuovo. Secondo lui dovevo contribuire alla parte storica e culturale della manifestazione e in particolare voleva che seguissi la manifestazione che mi sembrava sentisse più vicina in quegli anni, cioè la Festa a Palazzo, durante le iniziative della Festa di San Rocco. Voleva che lo sostituissi soprattutto come voce narrante e come curatore dei testi. Devo dire che lo accontentai solo in parte. Lo feci, mi ricordo con lui, a fianco, dentro Palazzo Fargna, mi sembra un paio di volte. Ma non più. E di questo oggi mi rammarico molto. Questo libro, per parte mia, è anche un piccolo ma sincero e sentito, atto riparatore.

Vedi caro lettore, di un’altra cosa voglio parlarti, prima di una mia breve narrazione sulla storia del presepe castellano. Voglio parlarti di quello che tu vedi nel titolo di questo capitolo: la scoperta di una città. Quando, come dice Valerio Bittarello, in uno dei suoi scritti, il futuro Granduca di Toscana, Ferdinando de’ Medici, promosse l’elevazione di Castel della Pieve a Città e al rango di Diocesi, sancita nel 1600 dal Papa senese Clemente VIII della famiglia degli Aldobrandini, questo atto corrispose prevalentemente a una esigenza di “buon vicinato” fra Stato della Chiesa e Granducato. Ebbe origine dal ruolo strategico di controllo dell’area del Chiugi, un granaio che faceva gola a tutti, che la nostra Pieve svolgeva in una zona calda di confine fra le due potenze di quegli anni. Poi però Città della Pieve da allora negli anni, arricchisce la sua storia di uomini, palazzi, opere, funzioni, e infine più vicino ai nostri anni di uffici e di servizi. E’ una storia che nei secoli ha dato corpo a stili di vita, sentimenti, identità che nel tempo si sono consolidate ed espresse, in piccolo rispetto ad altre entità più grandi, ma con la stessa dignità e direi con la stessa complessità, articolazione e ricchezza. Da questa storia nascono le tante associazioni e le tante attività, che animano ancora oggi Città della Pieve e che hanno trovato nel tempo il modo di rinnovarsi e si direbbe oggi “resettarsi”.

Anche se la rigidità delle leggi e degli ordinamenti dello stato unitario prima e del fascismo poi, accompagnatesi alla mancanza di progettualità del periodo regionalistico poi hanno creato, insieme ai devastanti processi di globalizzazione, rischi mortali alla nostra sopravvivenza e alla nostra identità “cittadina”. In questi mesi di lavoro nei ricordi, nei lavori, negli affetti, nelle relazioni, nelle speranze e nei progetti di una parte dei pievesi, ho scoperto che la nostra Pieve non è un borgo, non è un paese, non è una periferia di qualche metropoli che si scioglie nel villaggio unico imperante. E’ stata e ancora riesce a essere una “urbs”, cioè un agglomerato di case, vie piazze e palazzi, architettonico e urbanistico, ma anche e soprattutto una “civita”, cioè una comunità di cittadini che vivono insieme e insieme si danno regole e progetti collettivi. No, è una piccola città che prova a resistere. E’ una piccola città che prova a conservare le sue tradizioni. Che prova a tramandarle di padre in figlio. Che prova a mantenerle vive e a rinnovarle. E lo fa perché sente di far parte di una storia. E sente che questa storia ha un valore. E sente che questa storia deve continuare. Ed io spero tanto che ci riesca.

Il Presepe dei Pionieri

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Caro lettore, il presepe pievese, il presepe vanto del Terziere Castello, quello che tu hai già ammirato o potrai ammirare nei sotterranei dello splendido Palazzo Della Corgna, riportato a proprietà pubblica nei fervidi anni settanta, ha cominciato a nascere nel 1966. Era appena entrato l’autunno e le culla di questa avvincente e multiforme storia fu il famoso , per noi pievesi“Vicolo delle Pupe”. Tu non lo troverai così chiamato nello stradario nostro, perché oggi quella via è stata dedicata a Francesco Melosio, un rinomato poeta barocco nato nel nostro paese. La Pieve è una città piene di vicoli, che si innestano nell’asse viario principale composto dalle vie che portano alle tre porte di riferimento dal punto di vista geografico. Il Casalino che va alla Porta Fiorentina, via Garibaldi che oltre la piazza va alla Porta Perugina e Via Roma che conduce alla Porta Romana. Il “Vicolo delle Pupe” è quella stretta via che dal Profiello porta a via Fiordalisi e poi tramite quello che noi chiamiamo “l’arco di Sodini”, dalla ferramenta che per tanti anni stava a destra risalendo veros la Piazza, immette poi nell’ultimo tratto del Casalino.

E’ una piccola strada da visitare soprattutto durante le ore del tramonto, perché dando verso il monte di Cetona e verso le Piagge, cioè verso ponente, regala dei tramonti e degli scorci con colori impareggiabili.

Qui in questo vicolo, il caso o chissà quale benevolo fato, vollero che nascessero e vivessero alcune delle più belle ragazze pievesi. Non staremo a fare nomi perché non è giusto. Ma anche perché faremmo un torto alle tante altre belle donne pievesi che magari non hanno abitato nel vicolo di cui parliamo. Sì perché Città della Pieve ha sempre avuto tra i suoi tanti vanti quello di avere della gran belle donne e noi maschietti nativi abbiamo sempre dovuto faticare a difenderle dagli agguerriti e nutriti assalti che venivano dai barbari, e quando le vie di comunicazione non erano ancora tanto sviluppate, soprattutto dai “babbani” di Chiusi.

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Il mulino del Vicolo delle Pupe

Dicevamo che era autunno, era passato da poco il ferragosto con la festa di San Rocco, patrono del Terziere, e con la Festa del Pievese Lontano, cui il Castello forniva il piccolo corteo storico e le prime forme di taverna. Gli abitanti del vicolo si erano distinti per il loro lavoro e per la loro creatività. Avevano anche in quell’anno fatto un piccolo castello sotto le mura di quel Palazzo Corgna che ancora era chiamato Mazzuoli e anche la cascata che dal giardino scendeva al vicolo, come satira alla cronica mancanza d’acqua che allora la Pieve soffriva. Il Terziere Castello era stato ufficialmente costituito qualche anno prima nel 1964, primo rispetto agli altri due. Anche perché ufficiosamente tramite l’attività di Don Oscar Carbonari , viveva già le sue prime iniziative dall’immediato dopoguerra.

Le origini di questa attività, oltre che nella storia dei secoli trascorsi e nella passione che Don Oscar aveva per il calendimaggio di Assisi dove aveva studiato e dove continuava ad andare per tenersi aggiornato nelle diverse iniziative della chiesa conciliare, sono da ricercare in alcune iniziative di un gruppo di universitari pievesi che nel 1950 in occasione di una anniversario peruginesco, si resero protagonisti di una prima rievocazione storica “moderna”in costumi rinascimentali, proprio in onore del maestro, Ne parla, in una sua corrispondenza, quel preziosissimo ed indimenticato giornalista che abbiamo annoverato tra i nostri concittadini che risponde al nome di Mario Villani.

Enrico Mariottini, uno dei notabili del terziere insieme al primo presidente che fu Giacomo Cecconi, quest’ ultimo importante figura di artigiano pievese che è stato anche sindaco della città, volle quell’anno fare un encomio particolare agli abitanti del vicolo e come racconta uno dei protagonisti Rino Giuliacci, li chiamò a casa sua in Via Garibalidi. Forse sollecitati anche da quella gratificazione, il gruppo di amici che era composto dallo stesso Rino, da Sergio Bassini, da Nazareno Cupella, da Gino Porzioli, nello scendere di nuovo costeggiando il Palazzo, ebbero l’idea di fare un presepe. Prima pensarono a farlo fuori poi dentro il palazzo. Il problema era come farsi dare l’agibilità dei locali, visto appunto che erano ancora proprietà privata e soprattutto abbastanza abbandonati. Per l’ottenimento della agibilità dei locali, importante fu l’appoggio di Filiberto Cappannini, che aveva già lavorato nelle proprietà dei Marocchi.

Credo sia importante ricordare chi partecipò alla spedizione verso Monteleone per ottenere l’uso dei sotterranei. Ce lo racconta Marcello Cupella nella sua intervista. Nella sua macchina presero posto Filiberto Cappannini, Sergio Bassini, Mario Pulito e Caramba (Marco Giuliacci), allora ragazzino. Caramba era vestito da paggetto ed aveva il compito di offrire alla signora un mazzo di fiori.

La missione ebbe esito positivo e così cominciarono i lavori di ripristino dei locali che erano non solo abbandonati da tanto tempo, ma anche lesionati dai bombardamenti che avevano martellato Città della Pieve durante il passaggio del fronte.

Il progetto del primo presepe che fu realizzato nel 1967 fu di Bruno Bricca, un artigiano, un falegname che veniva dalla scuola professionale che per diversi anni aveva tenuto Don Luigi Periccioli, presso San Francesco e da dove venne una buona parte degli artigiani locali e buona parte degli uomini della DC pievese.

Chi è ricordato fra i realizzatori di questi primi presepi sotto la guida Bricca? Neno e Otellino, Mario Morucci, Marcellone Cupella, Sergio Moretti, Rancacioli, Dando Sorbino. Allora c’era già, anche Vittorio Massoli, detto “lo stagnino” che continuerà poi ad essere tra i più presenti nelle diverse fasi della storia del presepe, oltre che una persona di riferimento in tutta la storia del Terziere.

Quali tecniche erano usate? Il lavoro era tutto artigianale non c’erano impianti se non l’uso dell’energia elettrica per le necessità minime della scenografia. Tutto era costruito a mano con la carta, dalla rocce agli alberi, al verde. Gli anni dei pionieri furono gli anni del presepe tradizionale, ispirato a devozione, una estensione ed un arricchimento su grande scala del presepe familiare, scolastico o parrocchiale. Da ricordare che dopo Bricca a dirigere le operazioni del presepe subentrò Alfredo Barbini, detto “il Pichi”, un’altra figura di rilievo nell’ambito dell’artigianato pievese, che è stato sempre ricco di eccellenti figure soprattutto nel campo del legno e del ferro battuto, come sa chi ricorda personaggi del calibro di Lispi e Pietro Saracini.

I primi presepi anche se con delle dimensioni che si diedero subito ambizioni di grandezza fuori dal normale, furono fatti secondo i canoni più tradizionali della rappresentazione e l’abilità ed il successo consisteva soprattutto nel riuscire, con gli scarsi mezzi a disposizione, nella maggiore e grande fedeltà alla rappresentazione iconografica della tradizione religiosa. Le statue venivano dai presepi delle tante chiese ancora attive che la Pieve aveva in quegli anni: S. Litardo, San Donnino, S. Maria dei Servi, Madonna di Fatima e qualcuno parla addirittura dalla chiesa di Salci.

Presepi di pochi soldi, con qualche offerta, qualche contributo che trovava Don Oscar, ma addirittura con qualche cambiale firmata dagli organizzatori ed integrata dalla signora Sidonia Mariottini che era sempre un punto di riferimento per le iniziative rionali.

 

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Tra i materiali ritrovati da Gaetano Fiacconi nelle sue ricerche ci sono alcune passaggi che mi piace ricordare e riprendere perché rendono omaggio a figure importanti di quegli anni che vogliamo ricordare: “Gino Porzioli il 19 marzo 1969 per la festa di san Giuseppe – festa del papà – ideò una simpatica scenetta nella quale i Sampietrini omaggiavano Bruno Bricca, quale papà del presepe 1968 con un bel gallo di ceramica, soprammobile di bellezza e anche contenitore per il vino.

La moglie di Bricca, Piera, fra le carte del marito ha trovato la lettera che accompagnava il regalo:

(cantato sull’aria di “Vola Colomba”)

Tutte le sere intorno al tavoli,

noi qui al lavoro e ad ascoltare te:

Tizzo, e via via tutti gli altri,

per fà lpresepio più bello

con gioia nostra e a gloria del CASTELLO!!!

                                   (Cantato sull’aria di “Mamma mia dammi cento lire”)

Babbo nostro, ecco qui il regalo:

preparato l’abbiam per te,

ora noi te lo consegnamo,

ma alla fine volemo bè!

 

                                   (Cantato sull’aria di “La Violetta”)

Oh che bel babbino,

forse un poco piccolino;

oh che bel papà,

che noi tutti abbiamo qua;

qui nessun s’attiricca,

viva Bruno, evviva Bricca;

qui nessun si lagna,

se lavora e poi se magna;

siamo in allegria,

siamo sempre in armonia;

ma ora basterà:

viva Bricca, che è il papà!!!

E per Bricca Hippe, hippe….Hurrà!!

Dal nostro quartier generale, ore 18.00 del 19.03.1969

GIP/dixit

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La culla dei primi presepe: il “forno di Bassini, ovvero “il forno di Via delle Pupe” o “il forno di Pippo”.

Caro lettore, non ti pesi, adesso dopo il ricordo e gli omaggi fatti ai pionieri del presepe e del terziere, leggerne un altro che io intendo fare ad un uomo e ad un lavoro, un’attività di cui prima abbiamo parlato. Intendo dire di Sergio Bassini e del suo forno. Come ricorda ancora Mario Villani in uno dei suoi scritti su Trasumenus, il giornale che pubblicò negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, risulta che da antichi documenti in possesso oggi di Osvaldo Bassini, già nel 1808 esisteva un Filippo Bassini con un forno nel Vicolo delle Pupe, per cui è assai probabile che la famiglia Bassini esercitasse il mestiere del fornaio già dalla fine del 1700. Filippo ai primi dell’ottocento, poi Adelmo, poi ancora Filippo e poi Sergio di cui parliamo come promotore del presepe, hanno fatto pane, torte, dolci per due secoli per i pievesi al numero 122 dell’attuale Via Melosio. Hanno impastato, hanno “messo la lievita”, hanno scaldato il forno e poi infornato e pronunciato la frase rituale “ che il Signore vi accresca!”, hanno sparso odori e profumi che si sentivano da lontano e che segnavano il tempo e i tempi.”

Nel 1988 a Sergio Bassini fu assegnato un riconoscimento dalla Camera di Commercio di Perugia con l’assegnazione di una medaglia d’oro” dice Villani”che onora non solo una persona o una famiglia ma tutta la comunità pievese”. Da ricordare infine di questo forno culla del nostro presepe, che negli ultimi anni produsse e sperimentò alcuni dolci molto apprezzati che si richiamavano alla vita del Castello come “il Pane del Priore”e il “Pan dei Terzieri”, su cui sarebbe il caso di tornare a lavorare.

Il presepe negli anni di Alvaro Marchesini

Nel racconto del presepe che abbiamo ricostruito dalle interviste un posto di rilievo lo ricopre un’altra figura purtroppo scomparsa da qualche anno di cui con rammarico non abbiamo potuto trovare molte fonti o documentazione. Mi riferisco ad Alvaro Marchesini che si occupò del presepe per buona parte degli anni ottanta e che in quel periodo fece da maestro e da chioccia alla generazione dei giovani che proseguiranno la grande tradizione dei pionieri negli anni novanta e duemila, in particolare a Fausto Biagiotti e Fausto Scricciolo. Alvaro con gli altri due fratelli Silvano e Sergio aveva come tanti altri pievesi negli anni cinquanta e sessanta cercato lavoro e fortuna fuori dalla Pieve, come racconta magistralmente Silvano nel suo racconto sull’emigrazione pievese “Benvenuto apprendista diavolo!”.

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Poi era rientrato a Città della Pieve ed aveva preso in gestione il negozio di generi alimentari che era stato di Giovannini, prima a destra e poi a sinistra all’inizio di Via Garibaldi.

Con lui il presepe si arricchì della sua passione per la pittura e per la Pieve. Fu con il suo stimolo che,nel 1982, come è scritto in un giornalino stampato in quell’anno per due numeri, venne costruita, con le sapiente mani di muratori come Giorgio e Remo Massoli e di Roberto Pulito, la veduta in mattoni della Pieve dalla parte delle Piagge che ancora oggi troneggia in una delle stanze finali del presepe. Nei presepi da lui curati inoltre si cominciano a vedere le prime vedute di altri paesaggi e le prime figure dipinte dal suo estro personale. Con lui collaborarono particolarmente in quegli anni, Piero Menicali, Carlo Acquarelli, Dando Sorbino, ed i giovani che abbiamo prima ricordato.

Nel corso del periodo in cui il presepe fu curato da Alvaro Marchesini venne realizzato anche il presepe che rimarrà nella storia come “il presepe di Takao”. Era il 1984 e come racconta con precisione Valerio Bittarello nella sua intervista, erano presenti a Città della Pieve, alcuni restauratori impegnati in un intervento di ripristino dell’affresco della adorazione di Magi del Perugino. Takao Ono era fra questi e ideò per conto del terziere, insieme a Valerio, un presepe che ricordava la famosa opera.

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Ovviamente con la collaborazione dei tradizionali artigiani e maestri locali. Con una particolarità, che poi fu all’origine anche di alcune divertenti vicende. Le statue furono fatte attraverso calchie questi furono fatti con dei modelli umani, gente del terziere ed amici di Valerio. Che vissero le loro giornate di fama, ma anche di rischio. Anche questa poi è diventata una delle tappe più raccontate del viaggio fatto negli anni dal nostro presepe.

Il presepe negli anni di Fausto Biagiotti

Se si contano gli anni, se si riprendono le parti delle interviste che fanno una riflessione sulla storia del presepe, nel suo percorso ormai cinquantennale, se si guardano le procedure e le tecniche, le foto e i temi proposti, l’arricchimento del messaggio e delle relazioni con la realtà anche associativa esterna, negli ultimi venticinque anni, risulta evidente l’importanza della figura di Fausto Biagiotti nella storia del presepe ed anche, in modo diverso nel terziere.

Con gli anni novanta si afferma e si consolida il concetto che il presepe del Castello non è solo rappresentazione della natività secondo la tradizione religiosa, solamente iconografica, ma è, anche, messaggio vivo e concreto dell’inveramento e della attualizzazione dello stesso nella realtà storica e nella vita quotidiana, seguendo con grande attenzione e puntualità i fatti e gli avvenimenti che meglio potevano esprimere quei sentimenti. Biagiotti ripetepiù volte che l’occasione della ormai grande partecipazione all’evento doveva essere sfruttata per parlare ai visitatori e per offrire loro un messaggio di speranza, di pace e di amore, collocato nell’attualità. Non è affatto sorprendente, quindi, che a sostenere questo nuovo indirizzo fosse nei suoi ultimi anni di vita a Città della Pieve, anche quel Don Oscar Carbonari, che tutti noi ricordiamo non solo come il sacerdote appassionato amante della Pieve e promotore dei suoi eventi più importanti, ma anche come prete convinto sostenitore dello spirito conciliare e del rinnovamento ecclesiale.

L’architettura pievese e la sua piazza principale, l’ambiente, l’eterno e sanguinoso conflitto arabo palestinese, l’amore e le stagioni della vita, l’appuntamento dell’inizio del nuovo millennio, l’Afghanistan e la sua disastrosa guerra, la povertà, l’immigrazione e di nuovo il Perugino, in occasione del suo anniversario e della splendida mostra che fu allestita in Umbria ed anche nella nostra cittadina, questi sono stati negli anni i temi affrontati nei presepi degli anni di Biagiotti e della sua squadra.

In questi anni inoltre viene portata ai massimi livelli anche una attività che il presepe aveva già cominciato ad inserire al suo interno, quella della solidarietà attiva. Prima a favore di Suor Marcella poi con Biagiotti anche presidente, con Mani Amiche, Action Aid e gli Amici del Malawi. Con una parte degli incassi, che dal 2001 si sono ottenuti anche con l’introduzione del pagamento di un modesto biglietto. Nel corso degli anni si è contribuito alla costruzione di un centro di accoglienza per bambini in India, alla realizzazione di un acquedotto e di una scuola per bambini ex soldato in Congo.

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Dal punto di vista degli aspetti più tecnici riferibili alla costruzione del presepe in questi anni il corridoio entra a far parte stabilmente del presepe, si passa ad una dotazione stabile di piante e verde, e viene realizzata la volta celeste che diventerà quindi permanente.

Con gli anni novanta entra a far parte sia dei collaboratori del presepe sia dell’attività più generale del terziere un gruppo di giovani abbastanza nutrito: Gorello Michele, Schiaccia, Pica, Gianluca Castelli, Luca Saravalle, Cazzottino, Ciccotto e soprattutto una persona che si rivelerà un acquisto decisivo per il presepe, per la taverna sia e per qualsiasi altra attività del terziere che richieda fatica, lavoro e dedizione, parliamo di Mario Meo.

Tra i presepi realizzatiin quegli anni d c’è quello del primo   venticinquennale, celebrato nel 1991 e che ebbe come tema proprio la nostra cittadina, con le sue architetture e le sue preziose opere d’arte. Voglio segnalare infine il presepe del 2006 che ebbe come tema la povertà e di cui ho scelto la foto della natività per la stessa copertina di questo nostro lavoro. Una foto che narra uno splendido scenario fatto di orizzonti di grattaceli, tipico dei nostri anni globalizzati, con ai piedi la povertà e l’emarginazione dilagante che comprende la sacra famiglia ed il cristo che nasce. Presepe che costituì il primo di una trilogia che negli anni 2006, 2007, 2008 volle denunciare il muro dell’ indifferenza che era alla base delle sofferenze e delle ingiustizie moderne.

Il presepe negli anni di Fausto Scricciolo

Negli anni novanta, una persona che si è alternata nell’organizzazione del presepe con Biagiotti e gli altri più volte è stato Fausto Scricciolo, anche lui unendo la responsabilità del presepe a quella di presidente, carica che ha ricoperto dal 1996 al 1999. Scricciolo ha continuato anche la tradizione della solidarietà collaborando con Suor Marcella e alcune iniziative per il Guatemala, così come nei presepi da lui coordinati ha cercato sempre di individuare un tema o un messaggio dominante: nel presepe del 1996 era la Fede. Nel 1997 in coincidenza con il rovinoso evento sismico che colpì l’Umbria, fu il terremoto il tema dell’edizione di quell’anno e la basilica di Assisi la cornice davanti alla quale fu allestita la natività.

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1997 Assisi.

Nel 1998 i barconi dei disperati che provenivano dall’africa settentrionale diedero l’idea per la realizzazione di una natività in un’isola. In seguito nel 2004 il tema fu rappresentato dalla Marcia della Pace con Perugia ed Assisi ricostruite nelle sale principali.

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Nel 2005 invece il presepe ebbe un tema quasi obbligato: il nostro più noto figlio Pietro Vannucci detto il Perugino, nel cui anniversario fu allestita una splendida mostra e che il presepe volle omaggiare con delle stanze che riproducevano le opere del pittore presenti nella nostra città che culminavano con una natività che riprendeva l’affresco dell’adorazione dei magi presente all’interno di Santa Maria dei Bianchi.

Un presepe ricco e più voci

 Quello che credo abbia colpito, negli anni, i più fedeli visitatori o i realizzatori più longevi, o ancora noi che abbiamo ricostruito questa storia sulle fonti orali e i documenti, è sicuramente la grande ricchezza e poliedricità di questa esperienza creativa che si snoda dal 1967 ad oggi. Il presepe del Castello è stato davvero una voce che nel corso degli anni ha raccontato la rievocazione di uno dei momenti fondamentali della narrazione cristiana insieme agli avvenimenti, ai personaggi ai valori ed ai sentimenti più importanti che ha vissuto la comunità pievese e quella più generale.

Nel presepe monumentale del Castello, in questi nostri sotterranei, per primi, strappati all’abbandono, rispetto al resto del Palazzo e per primi riportati a nuova vita, si sono succedute e insieme si sono integrate alcune delle tradizioni e dei filoni culturali, che non è fuori luogo definire, fondanti della civiltà italiana. C’è stato e c’è una molteplicità di apporti che hanno avuto origine ovviamente secondo le diverse figure che si sono alternate nel lavoro di ideazione e realizzazione.

Si può dire che alla base fin dall’inizio ci sia stata la tradizione artigiana fortemente presente qui da noi e che ha costituito soprattutto negli anni prima della industrializzazione una componente importante anche della nostra economia. Ma è chiaro che i primi presepi di carta pesta, i primi impianti, le prime raffigurazioni nascono dalla scuola delle nostre botteghe artigiane e dai maestri che abbiamo ricordato qui ed altrove nel libro.

C’è forte e ricorrente anche la tradizione della pittura. La nostra cultura artistica di cui il Perugino anche nei secoli successivi ha fatto da coagulatore e da promotore di iniziative e scuole, e c’è la grande fortuna che il tema della natività ha avuto nella pittura italiana nel corso dei secoli.

C’è la forte e mai settaria tradizione laica che in Italia e a Città della Pieve, ha sempre espresso valori di solidarietà, di pace e di amore comunitario e che dai primi del novecento ha caratterizzato anche la vita politica e sociale della nostra cittadina. C’è infine ma non da ultimo, naturalmente, la grande tradizione religiosa che ha fatto della Pieve una città appunto che per secoli ha guidato non solo le vite private ma anche le cose pubbliche e che ha disseminato il nostro territorio e le nostre mura di chiese e conventi di una pluralità di esperienze ed ordini religiosi. Un forte sentimento religioso che con alti e bassi ha avuto sempre una vita vivace, anche dopo la soppressione della Diocesi ed il venir meno dell’azione delle vecchie parrocchie, che va ricordato sono state parte importante della nascita e dell’affermazione della storia rionale e terzieristica in questa Pieve nostra.

corrierepievese@gmail.com