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L’aquila

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Lo so, frequentando un centro di igiene mentale dopo una lunga permanenza in ospedale, vengo scambiato per matto. Anche durante il ricovero, allo psichiatra che mi seguiva, con quei capelli perennemente disordinati e quegli occhi che mi fissavano cercando come in uno specchio la pazzia, la sua pazzia riflessa nel mio sguardo, avevo spiegato di non essere pazzo. Nella mia vita ho sempre agito con raziocinio, lealtà e bontà d’animo. I miei sentimenti come il mio agire sono sempre stati protesi verso il bene: della mia famiglia in primo luogo e poi verso me e anche verso la gente che mi circonda. Chi mi conosce sa che in me alberga un animo sensibile dentro la ruvida scorza di questo corpo ormai irreversibilmente appesantito dagli anni. Forse troppo sensibile…

Tutto iniziò quando volli accontentare mia moglie che desiderava una casa più spaziosa. Per me, ho sempre prediletto i luoghi piccoli, angusti come una tana, rassicuranti, raccolti, dove poter stringere me stesso tra le mie braccia, scaldarmi e addormentarmi quasi come in un sonno di morte. Un indisturbato riposo avvolto dal tepore della solitudine, così che le riflessioni, le sensazioni possano trascorrere libere dallo spirito alla mente.

Acquistai una villa che sembrava facesse al caso nostro e affidai il trasloco ad una ditta specializzata. La nuova casa era molto bella, ampia. Il pianterreno era composto da un salone, una cucina,, due bagni e uno studio. Un magnifico scalone di granito, lungo il quale si inerpicava una ringhiera di ferro battuto, portava prima ad un piano intermedio, dove era ubicata la lavanderia e una stanza piuttosto piccola.  Proseguiva poi fino alle camere da letto, guardaroba camera degli ospiti e relativi servizi.

Questa mia ennesima attenzione non mi fece riguadagnare l’amore di mia moglie. Forse il tempo, oppure il mio comportamento, sicuramente erano responsabili delle incomprensioni. E poi l’amore è irrazionale, non esiste un motivo per il quale nasce oppure muore.  C’è o non c’è senza particolari spiegazioni. Anzi a volte si manifesta nelle situazioni più improbabili, sboccia nelle condizioni più assurde e sfavorevoli e al pari, avvizzisce o nemmeno nasce quando si prova a spianargli la strada.

Inoltre, secondo alcuni, se due persone si amano, l’amore può diminuire, cambiare volto, può affidarsi ad altre forme per esprimersi ma non sparisce del tutto, altrimenti forse non era amore.

Comunque che ci fosse o non ci fosse l’amore tra me e mia moglie era ormai chiaro che il mio comportamento le dava fastidio, ed io come uno stupido illuso ero convinto che trovando un giusto sistema di azioni che l’avesse gratificata essa mi avrebbe ricambiato con l’amore. Che sciagurata idea, come se l’amore rispondesse a leggi, oppure valutasse somme di danaro o tenesse conto di vantaggi e svantaggi…Beh, queste condizioni si verificano ma hanno a che fare con quella sistemazione che la maggior parte degli individui accetta proprio quando un amore inspiegabilmente finisce ed allora ci si adatta a quella monotona vita che si rifugia nella bassezza, nella sopportazione, nella menzogna, nel tradimento.

Anche se le cose tra me e mia moglie non andavano bene, non ci separammo mai. Ritenevamo, e ancora oggi ne sono convinto, che i ragazzi andassero difesi da quello smarrimento e disagio cagionato dal fallimento del rapporto dei  genitori.

Prima che nella casa tutto fosse sistemato e agibile, dormimmo in quella cameretta accanto alla lavanderia. In seguito, dopo una serie di liti, io rimasi nella cameretta e lei si spostò nella camera da letto vera e propria.  Questa cosa mi disturbò perché già dava ai nostri figli la certezza dell’insofferenza che vigeva tra i genitori. Insofferenza che di lì a poco sarebbe sfociata in quella sorta di odio che rende impossibile la convivenza.  Tuttavia in presenza dei ragazzi e anche degli estranei mostrammo sempre un certo accordo tra noi. Quando invece ci ritrovavamo da soli, l’indifferenza, l’astio, la sopportazione spinta al limite esasperavano ambedue. A quel punto ci ritiravamo nelle rispettive camere rinchiudendoci nella condizione di single.

Circondandoci con quelle pareti ci isolavano anche da un punto di vista sociale. Soprattutto la mia stanza era una sorta di antro psicologico, una tana ancestrale nella quale poter esprimere la mia vera natura che non osava venir fuori accanto a quella che avevo scelto per  mia compagna.

Comunque il fatto di essere stato relegato in uno spazio un po’ staccato dal resto della casa presentava anche dei lati positivi. Era uno spazio angusto ma rappresentava per me la libertà. Nel mio rifugio potevo fare tutto quello che mi pareva. Il letto era cosparso di libri, la sera soprattutto mi piaceva immergermi nelle storie narrate da grandi scrittori. A quel tempo mi piacevano molto Tolstoy, Poe, Hemingwey, Miller. Ma anche scrittori italiani come Pavese, Buzzati, Pasolini. Poi in definitiva leggevo tutto quello che mi capitava. Giravo per librerie, mi fermavo alle bancarelle  di libri usati e curiosavo. Le copertine, il suono del nome dell’autore, alcune parole carpite in punti a caso del libro. In genere qualcuno di questi elementi mi convincevano a scegliere e così tornavo a casa con un fagotto di libri. La lettura mi emozionava e accendeva in me a volte fiamme di sogni che eccitavano lo spirito, altre volte mi donava pace, riflessività,  altre volte ancora speculazioni di tipo filosofico. Da  tutte queste sensazioni, soprattutto di sera scaturiva un sonno ristoratore e così bene cominciai a dormire, che normali sogni iniziarono a popolare le mie notti al posto degli incubi che mi avevano tormentato per lungo tempo facendomi svegliare di soprassalto e fradicio di sudore. Gli incubi erano per lo più apparizioni di  animali: pesci, giraffe, colombe, condor. All’inizio erano una semplice visione, silenziosa, ovattata, onirica appunto. Poi le cose cambiavano e gli animali si trasformavano in mostri. Avevo paura non riconoscendo gli esseri che mi apparivano nei più svariati scenari. Grossi uccelli planavano e a poco a poco prendevano le sembianze di strani dinosauri. Pesci nell’acqua chiara come nere ombre fuggivano e ritornavano trasformati in draghi. Enormi condor dilaniavano carcasse di esseri umani e diventavano essi stessi antropomorfi.

Si, alla sera mi rilassavo con la lettura e dormivo sognando finalmente persone come me, nelle loro occupazioni giornaliere: sogni tranquilli e qualche volta anche pieni di colore come ad esempio bambini che correvano tra prati fioriti. Oppure fuochi d’artificio con “fontane” luminosissime che mimavano la felicità come la si può immaginare.

Nella mia stanzetta mancava lo specchio. Ne acquistai uno e lo attaccai nel bagno. Era sufficientemente grande da riflettere dalla testa alla cintura un adulto. Di tanto in tanto lo guardavo e l’immagine che mi restituiva era di me che invecchiavo gradatamente: una rughetta di qua, un neo, il doppio mento. Presi diletto in questa occupazione e mi piaceva passare diverso tempo contemplando la mia fisionomia. Non narcisismo ma curiosità anatomica, una sorta di fisiognomica rudimentale. Ma forse i cambiamenti non erano così diluiti nel tempo…

Una mattina nella solita ispezione facciale mi resi conto che il naso da pronunciato diventava adunco. Si sporgeva più del solito, con una certa impertinenza tendeva  a nascondere le labbra nella loro parte centrale. E le labbra da sottili si riducevano ad una specie di linea, una sorta di taglio serrato dove non si scorgeva il normale colore roseo. Gli anni che passano fanno brutti scherzi. L’importante però era sentirsi bene e per fortuna ero ancora in buona salute. Sì, i diverbi con mia moglie…ma non si può avere tutto dalla vita. Infine anche gli incubi erano spariti, andava bene così.

Trascorse qualche settimana, le giornate si riempivano sempre più di luce, sopra i muri vecchi spuntavano con ostinazione erbe e fiorellini,  la primavera non sentiva ragioni e risvegliava la natura in una sorta di esplosione che ai lati delle strade irrompeva nell’aria con colori, cinguettii, farfalle e insetti tutti presi dalla stagione dell’amore.

Una mattina bello riposato indugiai ancora un poco a letto poi mi alzai e difilato come al solito andai allo specchio. Ancora cambiamenti, anzi nella loro progressione accelerata stavano letteralmente trasformandomi: il mio naso era diventato ancora più adunco e stranamente la bocca si era quasi fusa con esso. Qualche giorno ancora e i sospetti erano diventati una certezza: l’immagine riflessa dallo specchio era quella di un uomo che si stava trasformando in un’aquila. Non so se gli altri si accorgessero della mia trasformazione. Quando ero in presenza di mia moglie e dei miei figli, tutto sembrava normale, ad esempio a tavola. L’abitudine di mangiare riuniti intorno alla tavola l’avevamo conservata per non rendere traumatica ai bambini la nostra situazione. Ancora oggi sono convinto che fu un comportamento sano e corretto, mio e di mia moglie, nei confronti della prole che non visse in maniera sconvolgente la nostra insofferenza. Comunque credo che non si siano mai accorti di niente a riguardo della mia trasformazione.

Quando ero da solo con mia moglie chiaramente non mangiavo in sua compagnia. Penso che mi detestasse e che piuttosto sarebbe rimasta digiuna pur di non sedere di fronte a me. Con il tempo mi convinsi che prima o poi mi avrebbe avvelenato. Così compravo il cibo personalmente, soprattutto dal fruttivendolo. Poi andavo in camera mia, che chiudevo immancabilmente a chiave, mi sdraiavo sul pavimento e fissando il soffitto mangiavo. La polpa della frutta fresca sembrava contrastare il caldo che sempre più spesso saliva da dietro la testa e raggiungeva, fino ad averne pieno possesso,  sia la fronte che le tempie. In questi momenti sentivo che gli occhi si distanziavano fino a farmi guardare nel contempo alla mia destra e alla mia sinistra. In questa circostanza il mento sembrava atrofizzarsi, la bocca veniva inglobata sotto il naso e nel cervello con realistica precisione si delineava l’immagine dell’aquila. La mia immagine. In seguito a queste sensazioni generalmente mi addormentavo. Allora nitido sotto i raggi del sole vedevo il re dei pennuti, su di uno sperone di roccia in cima ad una montagna che si ergeva superba più in alto di tutte le altre. E l’aquila ero io. Potevo alzarmi in volo  e percorrere distanze quasi infinite. Sotto di me si stendevano steppe e poi praterie di un verde smeraldo come nessuno aveva mai visto. In lontananza poi appariva il mare, poco dopo era sotto la traiettoria del mio volo e si scorgeva la schiuma di ondate che caparbie tormentavano la scogliera e poi delfini come ammaestrati che saltavano e sparivano nell’abisso e riemergevano giocando come se il mare fosse un laghetto da fiaba.

Una volta in uno di questi viaggi, ancora sul mare, fui raggiunto dal soffio poderoso di una balena e le piume che ricoprivano il mio corpo furono inondate da goccioline salmastre sature di aria greve assorbita all’interno dei  cavernosi polmoni profondi e scuri come quel mare che l’enorme cetaceo esplorava. Ad un certo punto il mare cominciava ad apparire ghiacciato e capivo di essermi spinto nelle estreme regioni artiche e l’azzurro intorno diventava meno intenso fino ad apparire celeste e poi sfumava, degradava verso il bianco diventando infine candido nella  glaciale coltre di ghiaccio che si allungava fin dove lo sguardo arrivava.

Quando ero ricoverato il medico mi diceva che queste visioni erano una sorta di sogni e in effetti nel momento in cui il viaggio finiva sentivo il pavimento freddo e duro sotto di me. Restavo attonito nel riconoscere , poco per volta, la mia camera che mi circondava. Nella mente però il riverbero meraviglioso e selvaggio dei lontani luoghi dove poco prima ero stato, ancora indugiava dandomi la certezza che non si trattava di sogno bensì di una realtà effettivamente presente dentro me.

Quando i bambini tornavano dalla scuola, se mia moglie non mi vedeva apparire, dava qualche colpetto alla porta di camera mia: “Che fai vieni fuori? I ragazzi sono tornati.

“Sì, esco. Mi ero appisolato. Non li avevo sentiti”.

Nei confronti dei miei figli, sempre, sono rimasto un padre premuroso e sempre sono stato ricambiato. Tuttavia credo che loro non si siano mai accorti dei miei “viaggi” e della mia vita “segreta”.

Giorno dopo giorno la cameretta che occupavo, ma forse dovrei chiamarla tana, spelonca, rifugio, luogo ancestrale nella mente, spazio atavico di libertà istintiva, avatar di una vita prigioniera, andava riempiendosi letteralmente di oggetti e forse di ossessioni. Libri, giornali sgualciti, panni sporchi, avanzi di cibo, bottiglie vuote e mille altri oggetti. E pensare che mia moglie era maniaca della pulizia. Era capace di vedere sporcizia anche dove non c’era: figuriamoci se fosse entrata in camera mia. Questo comunque non mi interessava: io avevo la mia vita lei la sua.

Vivere ognuno nell’abisso della propria individualità significava anche totale perdita della vita sessuale.

Non è che ne sentissi continuamente un bisogno impellente. Però è pur vero che tra tutti gli animali l’uomo, è l’unica specie ad avere una sessualità non relegata a brevi periodi dell’anno. Di conseguenza a volte venivo assalito da pulsioni che insoddisfatte, mi tormentavano. In quei momenti non mi riusciva ad allontanare dalla mente, dalla fantasia pensieri erotici. Però questo tipo di desiderio non atteneva prettamente alla fisicità ma era intrecciato ad una sete inesauribile di affetto: rapporto sessuale a conferma di amore, armonia. Qualche volta, stendendomi sul pavimento, provavo a fare un viaggio nello sconosciuto, affascinate mondo femminile. Certamente non era “un’indagine” psicologica ma semplicemente un’incursione nell’estetica di questo lunare pianeta. Molte immagini femminili comparivano. Era un po’ come quando Ulisse discese nell’Ade. Le vedevo passare, le ammiravo. Sfilavano con le loro belle forme arrotondate sotto le vesti. A volte erano tessuti di lino fresco e leggero che frusciava sul pavimento e scivolava sulla pelle. E che dire poi di fuseaux o jeans elasticizzati che modellavano i glutei come cesti pieni che non aspettavano altro che di essere accarezzati per poi addentarne i frutti fatti per saziare, pronti, maturi, succosi e rossi di passione. Nella carrellata fantastica non mancavano figure sexy e snob, fasciate in eleganti abiti scuri da serate di gala. Queste figure un po’ austere si lasciavano però andare al gioco del si vede e non si vede attraverso vertiginosi spacchi che mostravano per un attimo e subito celavano mentre un sorriso beffardo echeggiava come una barriera. Le donne sfilavano ed io dal pavimento le ammiravo. Che forme magnifiche! Ognuna con una peculiare caratteristica che la rendeva unica, desiderabile…Poi ce ne era una veramente unica e particolare, gli occhi leggermente a mandorla e il colore ambrato della pelle. I capelli lunghi come autostrade e movenze sinuose da odalisca. Si fermava con aria sensuale e iniziava una danza che sembrava scaturire direttamente dalle ancestrali regioni dell’eros più sfrenato e istintivo. Sembrava invitarmi ma, nel momento in cui provavo a carezzarla e abbracciarla rideva e si smaterializzava. Anche dopo sparita, il suo riso sardonico e sprezzante echeggiava sulle pareti, rimbalzava per la stanza e colpiva il mio udito in maniera cacofonica. A quel punto stringevo la testa tra le mani e mi contorcevo dalla disperazione. Sentivo che la follia si impadroniva del mio essere e avevo paura.

Come sempre giorno dopo giorno mi guardavo allo specchio. Ormai la mia fisionomia rimaneva stabile, la metamorfosi era completata. L’aquila era perfetta: gli occhi belli tondi erano cerchiati da un anello giallastro e gialla era la parte finale e i contorni del rostro. Al posto dei capelli naturalmente spiccava un meraviglioso piumaggio marroncino spruzzato di macchioline nere e grigie. Sotto la gola invece il colore risultava più chiaro, grigiastro. Il collo si era allungato sulle spalle spioventi dove al posto delle braccia si allungavano due poderose ali. Quando le allargavo lo specchio non riusciva a contenerle. Erano quelle la mia forza. Quello che prima facevo con la fantasia, si era avverato. Potevo realmente volare e sentire l’aria fresca e pulita delle altitudini e solcare le nubi e guardare dall’alto ogni situazione senza essere invischiato in quella melma dove per anni avevo starnazzato.

Una mattina mia moglie venne a bussare alla mia camera. L’ora era insolita. I bambini erano ancora a scuola. Che cosa diavolo voleva?

“Come va stamattina? Apri un attimo, c’è il dottore, vuole vederti”

“Mandalo via, mi sento benissimo. Non ho bisogno di nessun medico. L’altra volta non mi è piaciuto quello che mi ha detto. Penso che anche lui ce l’abbia con me. Non è qui per aiutarmi. Quel caldo che mi sale dietro la testa è sparito. Te l’ho già detto mi sento bene.”

Questo non era vero, quella sensazione di caldo dietro alla testa sovente mi opprimeva e in concomitanza con esso delle voci mi ronzavano nelle orecchie. A volte erano parole comuni non legate tra loro in modo da formare una frase. Altre volte erano una serie di snervanti consigli. Infine quando il calore e il mal di testa raggiungevano il culmine, le voci si trasformavano in accuse sibilanti che entravano e uscivano dal cervello. Si insinuavano anche nelle orecchie e dopo su tutto il corpo esercitavano il loro stridente e cupo potere. Quando il dolore, il disagio, l’insopportabilità della vita, diventavano invincibili. Quando la testa sembrava stesse per scoppiarmi, all’improvviso in pochi secondi tutto passava e sfinito mi addormentavo. Appena il sonno si impadroniva di me iniziavo a vivere nell’altra parte del mio essere: l’aquila volteggiava con ali poderose e leggere dal battito ovattato.

Al suo sguardo nulla sfuggiva. Il suo volo dominava vallate, mari, monti e cieli.

Comunque non aprii la porta e il medico andò via. Anche questa volta ero riuscito a riaffermare la mia libertà senza che violassero il mio mondo, i miei sogni, le mie fantasie…e anche la mia doppia vita, quella che mi avevano costretto a immaginare prima e a realizzare dopo.

Un giorno  mi guardavo allo specchio: ammiravo il rostro e ne traevo un narcisistico piacere. Era robusto e alla fine, nell’estremità si era incurvato da risultare perpendicolare al resto del becco. Anche il colore era formidabile: di un giallo bello deciso come un sole sfavillante in pieno agosto, nella parte attaccata alla testa e di un bianco perlaceo verso la punta. Scorgevo con una sorta di meraviglia anche le narici: due forellini leggermente di sbieco. La natura sa quello che fa. Voleva dire che per un’aquila la maniera migliore per incamerare ossigeno era quello di introdurlo attraverso quei buchini…siamo noi umani a sconvolgere tutto…mia moglie ad esempio aveva sconvolto tutta la mia vita. Aveva tradito tutti i buoni propositi che entrambi, in comune accordo avevamo fissato per vivere serenamente insieme ai nostri figli. Ormai era diventata una nemica pronta a farmi fuori appena gli si fosse presentata l’occasione. Solo quando l’aquila solcava i cieli e stracciava brandelli di nubi ero al sicuro. E da lassù a volte la vedevo indaffarata nelle meschine cose della sua misera esistenza…intenta a frugare tra le mie cose con un perenne ghigno di scontentezza cristallizzato sul viso: scontentezza che si sarebbe dissolta soltanto quando il suo disegno, magari di avvelenarmi, si fosse realizzato. Forse anche mi screditava nei confronti dei miei bambini. Infatti negli ultimi tempi, quando ormai ero uomo e aquila, notavo che mi guardavano con una certa perplessità e annuivano alle mie parole giusto per non contrariarmi. Inoltre, non si avvicinavano più ad esigere coccole come avevano sempre fatto. Anzi in un qualche modo evitavano il mio contatto e solo qualche volta, di sfuggita accennavano una sorta di abbraccio sotto lo sguardo vigile della loro mamma. Che cosa avevo mai fatto, di quale crimine mi ero macchiato, quale onta avevo provocato ai miei simili, per vedere compromesso l’amore che sempre mi aveva legato ai miei figli: il mio sangue! Cosa altro dovevo ancora sopportare prima di vedere la fine delle mie pene? Anzi, il mio dolore all’anima sarebbe terminato? Oppure mia moglie avrebbe fatto in tempo a sopraffarmi trasformando l’ultima parte della mia vita in una lotta senza quartiere per aggiudicarmi qualche brandello di serenità?

Un giorno sentii dei colpetti alla porta: toc toc. Era mia moglie. “Apri, ti devo parlare”. “Non ho voglia di parlare con nessuno”. “Apri per piacere, è importante”. “Non ho bisogno di parlare con nessuno. Non mi hai mai parlato. Non mi hai mai ascoltato. Si può sapere proprio oggi cosa vuoi da me?”  “C’è una persona che vuole vederti. Non lo conosci, è il dottor Vincenti. Apri ti prego vedrai che lui saprà aiutarti”. “Non voglio vedere nessun dottor Vincenti. Non voglio vedere nessuno. Sto benissimo. Tu mi credi pazzo, lo so. Ma tu mi odi. Mi vuoi mandare alla casa di cura perché non ti riesce di avvelenarmi! Maledetta!” A questo punto intervenne questo dottor Vincenti, che non avevo mai conosciuto. “Apra signore, io voglio soltanto aiutarla. Ho solo bisogno di scambiare quattro parole con lei. Lei è una persona ragionevole, vedrà che tutto si sistema.”

A chi volevano darla a bere. A chi volevano fregare questi maledetti. Se io avessi aperto la porta mi avrebbero immediatamente sopraffatto. Ero sicuro che insieme a mia moglie e al medico c’erano altre persone. Altre persone che desideravano, come mia moglie che le aveva chiamate, il mio male. Tanto per cominciare mi avrebbero percosso. E le mie ali? Avrebbero strappato lo so, le penne dalla viva carne per impedirmi di volare. Dopo solo loro sapevano quali sevizie avessero riservato alla mia persona. Ma quello che non mi andava giù era il fatto che per giustificare la mia “crocifissione” sarebbero stati capaci di accusarmi di pazzia. E dopo questa dichiarazione la loro sarebbe stata una strada in discesa per annientarmi. Questo dottor Vincenti avrebbe estratto il mio cervello, lo avrebbe fatto a fettine per studiarlo meglio, dopo lo avrebbe lavato e ripulito dalle idee (secondo loro) sbagliate. Mia moglie avrebbe coadiuvato tutta l’operazione per assicurarsi che i chirurghi lobotomizzassero ampiamente la materia grigia. Sicuramente sotto sua indicazione mi avrebbero ridotto ad un vegetale.

Insomma non potevo aprire la porta ai miei carnefici: dovevo ad ogni costo cercare di fuggire, mi serviva un po’ di tempo per spiccare il volo. Barricai la porta con sedie, tavolo e una libreria. Alcuni volumi cascarono aprendo le pagine all’aria greve della mia spelonca. Volare, sì volare! Solo questo poteva darmi qualche speranza di salvezza. Dall’alto potevo anche deridere questi sciagurati che si coalizzavano contro di me. Totalmente al sicuro non sarei stato perché potevano abbattermi con un fucile. Ma cosa c’era di meglio che morire assaporando la libertà attraverso l’aria fresca e frizzante che si apriva ai miei colpi di ala. Miserabili! Dovevo sbrigarmi, se riuscivano a prendermi mi avrebbero trattato come un malvivente. Trascinato, legato, malmenato, offeso. E tutto questo per non aver fatto nulla.

Non ricordo come fecero ad entrare, immagino forzarono la porta con qualche arnese. In un angolo della mente ancora sento degli strani rumori che di tanto in tanto emergono dal buio della memoria e in qualche modo mi riconducono ai drammatici momenti nei quali decisero che le mie ali dovevano essere tarpate. Sulle prime restai calmo e freddo di fronte agli “inquisitori”: come all’inizio dicevo  non sono pazzo! Ma quando vidi che medico ed infermieri erano accompagnato da alcuni carabinieri mi venne una crisi, sentii che qualcosa si rompeva dentro di me e cominciai a piangere. Mentre mi portavano via notai le smorfie di disgusto di quelli che erano entrati a prendermi. Nella mia camera tutto era ammonticchiato senza ordine alcuno. Un caos nel quale era evidente un totale abbandono delle cose terrene a vantaggio di una elevazione che mi portava oltre, altrove, in un  mondo lontano anni  luce da quello nel quale tutti volevano costringermi a vivere. Nessuno poteva capirmi. Nessuno intuiva la mia estasi e la mia dannazione. Quelle espressioni corrugate, che si nascondevano parzialmente dietro il palmo della mano, che parava la bocca e le narici, erano chiaro segno disapprovazione, di condanna, di promessa punizione. Tuttavia a pensarci ora, il fetore dell’ambiente doveva essere nauseabondo, l’aria della stanza ristagnava  tra miasmi marcescenti. Il mio “nido” era cosparso da avanzi di cibo in decomposizione. Cibo di ogni sorta e poi, anche escrementi più o meno rinsecchiti, e già perché quando volavo, come fanno tutti i volatili, mi capitava di defecare.

 Non riesco a rendermi bene conto di quanto tempo sono rimasto nella casa di cura. Ora mi dicono che sono guarito, però ogni settimana devo presentarmi al centro di igiene mentale. Sono guarito…guarito…

Ma da cosa dovevo guarire? Mica ero matto accidenti!

Il colloquio con lo psichiatra si svolge sempre cordialmente, anzi lui dice che gli piace parlare con me e che sono simpatico. Anche lui a me è simpatico infatti seguo volentieri i suoi consigli e prendo regolarmente le medicine secondo le sue prescrizioni.

Anche con mia moglie va molto meglio però proseguiamo a dormire in camere separate: la volete sapere una buona? Va dicendo in giro che non si fida di me e ha paura che quando si addormenta io possa farle del male. Ma non era lei che voleva e infine ha fatto del male a me? E poi non era lei che voleva farmi uccidere? Lasciamo perdere. Non sono vendicativo e queste sono sciocchezze…

I miei bambini nel frattempo sono diventati adulti. Sento che mi vogliono bene come io ho sempre voluto bene loro.

Comunque c’è una cosa che non riesco a spiegarmi, tuttavia non ne voglio parlare nemmeno allo psichiatra. E’ un sogno, sì quando dormo a volte sogno quell’aquila che si era impossessata della mia personalità. E’ un maestoso,  fantastico ed elegante pennuto, mi rapisce e mi porta con se oltre le nuvole. In un posto fuori dal tempo e dallo spazio. Meravigliosa regione di pace e serenità.