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Intervista a Julia Cage “Lettori protagonisti”

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dall’Avvenire Intervista di Alessandro Zaccuri

Più che informata, è informatissima. Anche sulla situazione italiana: «In linea di principio non sono contraria all’intervento dello Stato a favore dei media – spiega Julia Cage -, purché sia attuato in modo neutrale, per esempio attraverso un sistema di agevolazioni fiscali. Nel vostro Paese, invece, si è seguita la strada del finanziamento diretto e ancora oggi i vertici della Rai sono sostanzialmente soggetti al gradimento del Governo. Tutto questo non può non avere ricadute sui contenuti. E questo non è un problema di conti, è un problema di democrazia».

Cattedra di Economia a Parigi (alla prestigiosa Sciences Po, per la precisione) e curriculum di studi internazionale, con tanto di perfezionamento ad Harvard, sulla questione la professoressa Cage ha idee molto chiare. Le ha esposte con grande precisione in Salvare i media, un saggio che esce ora da Bompiani (traduzione di Sergio Arecco, pagine 126, euro 16) e che prevede un’estensione tecnica online: un vero e proprio modello di fattibilità per indicare una possibile via d’uscita dal vicolo cieco nel quale i giornali sembrano essere finiti.

«La criticità principale – ribadisce la studiosa, in Italia in questi giorni per presentare il suo libro – riguarda la governance delle società editoriali. A livello mondiale, le testate più importanti appartengono a pochi magnati, le cui decisioni sono solitamente finalizzate alla massimizzazione degli utili. Parliamo di società quotate in Borsa, i cui bilanci vengono riportati in utile mediante tagli anche molto dolorosi sulle redazioni. Impoverendo l’informazione, insomma». E l’alternativa quale può essere?

«Smettere di considerare i media come semplici imprese private e considerarli come attori del più vasto complesso dei beni e dell’economia della conoscenza. La prima conseguenza di questa nuova impostazione sarebbe il venir meno degli obiettivi di esclusivo profitto e il costituirsi di società editoriali senza scopo di lucro, la cui struttura può essere assimilata, almeno in parte, a quella delle maggiori università internazionali».

In che senso?

«Proviamo a immaginare una forma mista, a metà strada tra la società per azioni e la fondazione. Una fondazione, se cosi vogliamo chiamarla. Senza scopo di lucro, torno a ripeterlo. I capitali investiti restano congelati, non possono essere restituiti, non danno dividendi, ma neppure implicano perdite ulteriori. L’incentivo viene dagli sgravi fiscali, che sono molto significativi».

Ma non basta una normale fondazione?

«No, perché è una formula che,di per sé, non scioglie il nodo della governance. Dal punto di vista formale un colosso dei media come la tedesca Berteismann è retto proprio da una fondazione, ma la composizione del consiglio di amministrazione risponde alle logiche di un’azienda di famiglia, con tutto quel che ne deriva».

Lei che cosa suggerisce?

«Di distribuire meglio il potere decisionale. Propongo un modello nel quale le finalità della fondazione siano sostenute da una società per azioni di nuova concezione. Di fatto, si tratterebbe di introdurre un tetto, pari in ipotesi al 10% delle azioni, oltre il quale il diritto di voto aumenti solo di un terzo rispetto alle quote eccedenti detenute dal singolo investitore. In questo modo si evita la concentrazione delle decisioni in mano a poche persone e si favoriscono forme di azionariato diffuso, alle quali possono accedere non solo i dipendenti della società editoriale, come m parte già avviene, ma anche i piccoli e piccolissimi investitori».

Ed è qui che entra in scena il crowdfoundingì

«Esatto. È un fenomeno in espansione, i cui risultati hanno sorpreso anche me. In una sola settimana una petizione online riesce a raccogliere fino a 450mila euro a favore di un giornale in seria difficoltà economica. Allo stato attuale, però, queste elargizioni non conferiscono alcun diritto di rappresentanza. Attraverso il crowdfounding si resta donatori, non si diventa azionisti. Se invece si riconoscesse il valore societario anche del più piccolo contributo economico, si riuscirebbe a realizzare una base azionaria più ampia ed equilibrata, all’interno della quale la voce dei lettori acquisirebbe finalmente un valore riconoscibile e determinante».

Ma in economia la moneta cattiva non scaccia la buona? Perché con l’informazione dovrebbe accadere U contrario?

«Perché in un certo senso è già cosi, basta leggere i dati in modo corretto. Non vorrei sembrare troppo ottimista, dico solo che non ha alcun senso paragonare il numero, ancora relativamente modesto, di abbonamenti digitali raccolti dalle testate di qualità con la massa di informazione gratuita e, nella maggior parte dei casi, superficiale o fuorviante che si trova in rete. Semmai, dovremmo mettere a confronto le copie che gli stessi giornali vendevano in edicola dieci anni fa con la loro attuale diffusione nel web. Così facendo, ci accorgeremmo che esiste un pubblico disposto a pagare per leggere articoli ben scritti, approfonditi e selezionati secondo un criterio affidabile. La strada da percorrere è questa. Ancora accidentata, d’accordo, ma praticabile e anche remunerativa, almeno sulla lunga distanza».

Quindi internet non è più una minaccia?

«Niente affatto. Abbiamo bisogno di un’informazione di qualità , dopo di che il supporto, cartaceo o digitale, ha un’importanza relativa. Ora come ora il vero pericolo viene semmai da un servizio come quello degli Instant Articles proposto da Facebook. Le condizioni contrattuali non sono note, ma di certo gli editori sono convinti di poter trarre vantaggio dalla pubblicazione immediata dei loro servizi sul social network. Magari si arriva per primi, ma intanto si alimenta l’equivoco per cui l’informazione potrebbe essere nello stesso tempo accurata e gratuita. Ma questa è un illusione: il giornalismo, quando è buono, ha sempre un costo. E questo costo deve essere riconosciuto».